Domenica 19 gennaio c’è stata l’ultima replica di Sgnóra Padrõna, quella gran bella commedia di Gigi Mazzoni che è stata messa in scena con notevole successo dalla Filodrammatica Berton, al Masini per Capodanno e successivamente ai Filodrammatici. Il cast, superimpegnato per una ventina di giorni, adesso si starà sicuramente godendo un meritato riposo; penso in particolare a Rita Sandrini, la Tiglia, che nel ruolo di “serva padrona” non ha fatto altro che correre avãti e indrì a sbrigare faccende o a portare mestoli d’acqua a chi ch’l’era parcusê da la pavura: i tri burdèl, convinti di aver visto la Vëcia, la strega che di notte afferra i bambini che non sono a letto e se li mangia, l’Anna, scampata alle violente avances del fattore e così pure la Giovanna e la Tugnina che lui ha raggirato per mettere le mani sul podere che lavorano a mezzadria. L’andirivieni ‘d che ramaröl d’acva, usata per esorcizzare la paura, mi ha fatto tornare in mente quella che era una pratica quasi rituale, diffusa fra la nostra gente di un tempo.

Quei sorsi d’acqua che scacciavano la paura


In quei sorsi d’acqua che si mandavano giù in tutta fretta, la superstizione voleva che ci fosse sia il potere di calmare la forte tensione emotiva causata dalla paura, sia quello di liberare da spiacevolissime conseguenze. Si riteneva infatti che in seguito a un grosso spavento si potesse correre il rischio di diventare balbuzienti, di fare i capelli bianchi, di soffocare o di contrarre la tanto temuta tarèzia di cui ho sentito parlare molto fin da bambino. Durante i treb che d’inverno si tenevano ai Balarde˜, dei discorsi sulla paura se ne facevano spesso; una sera in cui noi bambini eravamo ancora presenti, uno dei nostri vicini, che era nato in un podere su dalle parti di Gamogna, tirò fuori la storia di uno zione che si era impiccato in un castagno e del suo spirito che di notte entrava in casa e li tormentava fino alla mattina tirando i piedi ora all’uno e ora all’altro. Per via di quell’argomento che poteva spaventarci, nonna Zelësta lo interruppe immediatamente dicendogli di rimandare il racconto a quando noi saremmo andati a letto. In questo modo però stuzzicò la nostra curiosità e il giorno dopo, nel caldo della stalla, convincemmo Ivano, il giovane garzone, a riferirci tutto e lui, per spaventarci ancor di più, a quel che si era detto la sera ci diede l’aggiunta con parecchia della sua fantasia. Noi più grandi, nonostante fossimo spaventati, prendemmo la cosa con finta spavalderia, il più piccolo invece scoppiò in un pianto prolungato che andava in crescendo con un singhiozzamento sempre più forte. Richiamata da quei singulti che quasi non lo lasciavano respirare, una delle donne che erano per casa lo venne a prendere e lo portò in cucina. La Zelësta se lo prese sulle ginocchia, lo fece bere più volte per farlo smettere ‘d tratnì e’ fiê e quando poi lui, fra un sorso e l’altro cominciò a calmarsi, lo interrogò sul motivo di quel pianto disperato. Come erano andate le cose venne fuori quasi subito e nonna continuò a consolarlo dicendogli di star tranquillo ch’u n’era véra gnit e che Ivano si era inventato tutto par fê pavura a di pùvar ciù coma nujétar. Quando fu sicura che lui aveva arciapê e’ fiê e mandê zo la pavura, tirò fuori dal grembiale un paio di mentini e lo mise a terra con la promessa d’un bël tamagnõ per il garzone e una tirata di orecchie per noi che eravamo i responsabili di quello che era successo. La nonna non ci ha mai picchiato e non lo fece neppure quella volta, ma contrariamente al suo fare sempre molto dolce e permissivo, quel giorno ci affrontò insieme a Ivano con un piglio che non conoscevamo. Perchè tenessimo bene a mente il buridone e la cosa non si ripetesse più ci parlò di Gasparì (un modiglianese suo coetaneo), lo stagnino dalla pelle giallastra che passava da noi un paio di volte all’anno. A Gasparì, ancora poco più che ragazzo, una notte gli amici gli avevano fatto un brutto scherzo che lo aveva tanto terrorizzato che poi ci venne la tarèzia. Si era salvato per via dei pidocchi, tre per mattina, che i suoi gli avevano fatto mandar giù a digiuno golpati de˜tar un ‘ös-cia, ma a ricordo della paura che aveva passato c’era rimasto quel colorito giallastro che si portò poi dietro per sempre. A buon intenditor poche parole! Non ci fu più bisogno di tornare sul discorso perchè dopo a che buridõ e per la gran paura della tarèzia, al minimo segno di spavento mettevamo in pratica il metodo di nonna andando subito al secchio per mandarlo giù con una boccata d’acqua. Sempre la Zelësta, quando castrava i galletti per trasformarli in capponi, usava l’acqua per fargli passare la paura dell’intervento, piuttosto cruento, che avevano subito. Terminata la castratura gli bagnava il becco nell’acqua del secchio dove aveva buttato i suoi “gioielli” appena estratti e recitava la filastrocca che vi riporto.
Bev l’acva de tu cul
t’sèja sân e be˜ sicur
s’t’vi la voip te córr e córr
la maténa dri e’ pajêr
e la sera int e’ pulêr
s’t vi e’ pujân
stai be˜ luntân!
Bev so l’acva de tu cul
e pu córr fena a Frampul
Sânt’Antöni t’aiuta!

Lo mollava e il povero animale, frastornato da tutto quel che gli era successo, si allontanava barcollando qua e là per l’aia.

P.S. Al Teatro dei Filodrammatici Luigi Antonio Mazzoni in viale Stradone 7, sabato 8, domenica 9 , venerdì 14, sabato 15 febbraio alle 21e domenica 16 febbraio alle 16 la Filodrammatica Berton metterà in scena il giallo Il vero ispettore Hound. Prenotazioni al numero di cellulare 377 3626110, su Whatsapp attivo tutti i giorni. Oppure acquistare i biglietti direttamente nelle serate e nel pomeriggio di spettacolo.

Mario Gurioli