Potrebbe arrivare a breve una rivoluzione nel sistema sanitario italiano. È in discussione una bozza di riforma top secret che prevede un cambiamento radicale nel rapporto tra medici di medicina generale e Servizio sanitario nazionale. L’ipotesi sul tavolo del Governo è il passaggio alla dipendenza pubblica per i medici di base, che al momento sono liberi professionisti convenzionati.
Una svolta storica che punta, tra l’altro, anche a far funzionare le 1350 Case di Comunità che stanno nascendo in Italia grazie ai fondi Pnrr. La riforma ha suscitato una levata di scudi da parte dei medici di famiglia, a partire da quelli appartenenti alla Fimmg (Federazione italiana medici medicina generale), capitanati in Emilia Romagna dal faentino Daniele Morini. Secondo il sindacato, scompariranno gli ambulatori di prossimità, le visite a domicilio e il rapporto personale con il proprio dottore. Non solo: a fronte di una cinquantina di medici dislocati a Faenza in una decina di gruppi, si passerebbe a una sola Casa di Comunità (in costruzione in zona Fiera) con l’aggiunta della Casa della salute di via della Costituzione. Due strutture troppo piccole per rispondere alle esigenze di una città con 60mila abitanti. Ne abbiamo parlato con il dottor Daniele Morini, segretario regionale della Fimmg.

Intervista al medico faentino Daniele Morini e segretario della Fimmg (Federazione italiana medici medicina generale)

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Dottor Morini, la proposta del Governo di trasformare i medici di famiglia in dipendenti favorisce di fatto la privatizzazione del sistema?

È una proposta unilaterale di decreto che nessun medico ha visto. Temiamo che dietro ci sia l’obiettivo di rendere il sistema inefficiente, per poi favorire la nascita di ambulatori privati. Già oggi ci sono grossi gruppi pronti a investire nella sanità territoriale con ambulatori di medicina generale privati, sul modello di quello che sta accadendo in Lombardia. La riforma rischia di distruggere la medicina di famiglia così come la conosciamo. Con il contratto da 38 ore settimanali proposto dal Governo, un medico di famiglia dovrebbe dedicare solo 20-24 ore ai suoi pazienti, mentre il resto del tempo sarebbe impiegato in attività imposte dall’Asl. Oggi, invece, lavoriamo 50-60 ore a settimana per rispondere alle esigenze della nostra comunità.

L’attuale sistema è a rischio?

Sì. Se si impone ai medici di famiglia un modello lavorativo insostenibile, molti abbandoneranno il servizio pubblico, i tempi di attesa si allungheranno e i cittadini saranno costretti a rivolgersi al privato.
Si verrebbe a creare un sistema come quello ospedaliero, con il doppio canale. Noi vogliamo mantenere una sanità pubblica efficiente, che prescriva solo ciò che è necessario e accessibile a tutti. C’è poi un altro problema.

Dica.

Il Pnrr prevede 12 miliardi di euro per le Case di Comunità, ma questi fondi sono destinati solo alle strutture, non al personale o agli arredi. Il costo totale per renderle operative potrebbe variare tra i 25 e i 40 miliardi di euro, una cifra che oggi non è coperta. L’Italia deve rispettare i vincoli del Pnrr e rischia di perdere i finanziamenti se le Case di Comunità non verranno rese operative.
Per questo si sta cercando di “forzare” i medici a entrarvi, senza però una programmazione adeguata. Vorrei aggiungere un’altra cosa.

Prego.

In Emilia-Romagna questo modello esiste già con le Case della Salute e le medicine di gruppo avanzate, che hanno dimostrato di funzionare bene. Il vero problema è che il Governo sta cercando di attuare questa riforma senza il coinvolgimento diretto dei professionisti, con il rischio di disgregare l’attuale rete assistenziale. Un sistema in cui il medico diventerebbe una sorta di guardia medica diurna, una sanità on demand senza il rapporto di fiducia e conoscenza reciproca.

Cosa cambierebbe per gli utenti?

Le strutture messe a disposizione delle Asl non avrebbero la diffusione capillare che offrono gli studi dei medici di base, ma sarebbero dislocate in un solo punto della città, se va bene in due. Il cittadino non potrà più scegliere il medico, come avviene ora, ma andrà da quello in servizio. Ogni volta ne troverà uno diverso, con la perdita del rapporto di fiducia e della continuità di cure.
Il numero dei medici di base si ridurrà drasticamente così come sta avvenendo per i medici dipendenti.
È facile immaginare come in breve tempo si creeranno liste di attesa per accedere al medico di base.

Proviamo a calare questa ipotesi sul nostro territorio.

A Faenza esiste già una Casa della Salute, nata oltre dieci anni fa e rimasta parzialmente inutilizzata. Anche lì è stato fatto lo stesso errore: prima si è aperta la struttura e poi ci si è occupati degli aspetti organizzativi. Ora si vuole aprire una Casa di Comunità nella zona della Fiera, senza considerare le necessità dei medici e la loro organizzazione del lavoro. Se non si garantiscono condizioni sostenibili, nessuno accetterà di trasferirsi in queste strutture, che rischiano di trasformarsi in cattedrali nel deserto.

Il problema della fuga dei medici di famiglia però esiste già.

Appunto. Il nostro è un lavoro impossibile: assistiamo a casi quotidiani di medici che anticipano la pensione, o danno le dimissioni, anche giovanissimi. A Faenza, solo a ottobre si sono dimessi in tre. Il corso di medicina generale quest’anno ha avuto meno della metà dei posti banditi coperti.

Per questo vi siete messi insieme?

A Faenza praticamente nessuno lavora più da solo, da anni. Siamo dei piccoli imprenditori: con il nostro stipendio paghiamo segretarie e infermiere. Da dopo il Covid il lavoro è triplicato: siamo passati da 35 a 102 accessi al giorno.

Perché?

Il paziente vuole essere vistato subito, non c’è più la pazienza di aspettare. Consideri che ogni medico faentino ha tra i 1500 e i 1800 pazienti a testa, quando l’ottimale sarebbe 1200-1300, mentre un gruppo di cinque medici ne gestisce circa ottomila. A Faenza la Casa di comunità sarebbe una per 60 mila abitanti. Mi spiega come si può assisterli tutti con il servizio pubblico? È chiaro che chi può si rivolge al privato.

Se questa riforma entrasse in vigore, quali sarebbero le conseguenze per i medici?

Il rischio è che migliaia di medici di famiglia vadano in pensione anticipata, lasciando fino a 20 milioni di cittadini senza medico. Un nostro sondaggio tra i corsisti di medicina generale ha rivelato che il 67 per cento abbandonerebbe questa carriera se venisse imposta la dipendenza.

Voi che alternativa proponete?

Una soluzione c’è e la stiamo scrivendo nero su bianco. Sono le cosiddette Aft, le Aggregazioni funzionali territoriali.
Per semplificare, si tratta di gruppi omogenei di professionisti che organizzano il loro lavoro in rete. L’obiettivo è ottimizzare tempo e risorse, in modo da garantire una copertura giornaliera negli studi dalle 8 alle 20, 7 giorni su 7. Grazie al coinvolgimento dei colleghi della continuità assistenziale, della guardia medica e del Cau, potremmo garantire una copertura che arrivi fino a mezzanotte, con cartelle cliniche e dati condivisi. Un modello virtuoso che, se realizzato, sgraverebbe i pronto soccorsi e consentirebbe percorsi preferenziali per visite specialistiche d’urgenza.

La nostra Regione è stata capofila del progetto che ha portato alla bozza di riforma. Oggi però presidente e giunta sono cambiati. Vede degli spiragli?

Sì ora abbiamo una visione del futuro condivisa e stiamo lavorando insieme alla Regione a un progetto di riorganizzazione del territorio.
Lo stesso stanno facendo anche altre Regioni.

Barbara Fichera