Sul dialogo e in particolare sul dialogo con gli ebrei, “si gioca e si giocherà una partita tanto delicata quanto decisiva, anche per il futuro delle chiese cristiane”. E se “in Europa sono tornati deprecabili atti di antisemitismo e incaute prese di posizione, a volte anche violente”, “proprio per questo il dialogo va rafforzato. Continuiamo a crederci”.

È il “nocciolo” del messaggio che i vescovi italiani inviano quest’anno alle comunità e diocesi italiane per la XXXVI Giornata per l’approfondimento e lo sviluppo del dialogo tra cattolici ed ebrei che si celebra il 17 gennaio, alla vigilia della Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani.

Il messaggio, alla luce dell’anno giubilare appena aperto, porta come titolo “Pellegrini di speranza”. Perché in un tempo “carico di minacce”, “la nostra missione – scrivono i vescovi – è quella di far germogliare speranza e costruire comunità”. Ne abbiamo parlato con monsignor Ambrogio Spreafico, vescovo di Frosinone e Anagni, grande conoscitore del mondo ebraico e da sempre impegnato a tessere legami di amicizia, in particolare con le comunità ebraiche in Italia.

Monsignor Spreafico, il Messaggio della Cei parla di speranza. Ma veramente siete convinti che ci sia ancora spazio alla speranza oggi?

Nel Libro del Levitico, il Giubileo nasce come risposta al bisogno di tante situazioni di ingiustizie. Nasce per rispondere al bisogno di perdono e riconciliazione e per ristabilire una giustizia sociale: il problema della terra, l’essere diventati schiavi per aver perso la propria proprietà, il tema dell’uguaglianza.

Questa dimensione biblica è fondamentale perché ci ricorda anzitutto che noi siamo in debito sempre davanti a Dio, che abbiamo bisogno di essere perdonati e che anche noi siamo in debito nei confronti degli altri. Questa consapevolezza fa maturare uno sguardo diverso sulla società, sulle ingiustizie, sulle guerre e sulla riduzione di tante persone in schiavitù e in povertà. L’indizione del Giubileo nella Bibbia, nelle comunità ebraiche nel tempo, coincideva con il giorno del Kippur, cioè con il giorno della “grande remissione”, del grande perdono di Dio.

Anche oggi viviamo un tempo “carico di minacce”. Soprattutto dopo i fatti del 7 ottobre2023, è tornato in Europa e in Italia un rigurgito di antisemitismo. L’ultimo fatto drammatico, l’attacco di domenica 12 gennaio alla sinagoga di Bologna. Se lo aspettava? E perché questo male torna continuamente nelle nostre storie?

L’antisemitismo è lo specchio del mondo e di un mondo violento che considera l’altro “altro” e non parte di sé stesso. L’ebreo, purtroppo, anche nella storia del cristianesimo, è rimasto come “altro”, nonostante il magistero del dopo Concilio della Chiesa.

E quando c’è bisogno di un capro espiatorio su cui riversare la propria insoddisfazione sociale, politica, economica, emerge sempre purtroppo la figura di qualcuno da considerare nemico.La situazione che si è creata dopo il 7 ottobre, nella risposta di Israele, ha fatto purtroppo emergere in maniera violenta quelle radici antisemite che evidentemente c’erano nella nostra società e devo dire anche all’interno talvolta del nostro modo di pensare come cristiani e come chiesa cattolica.

Lei è preoccupato? Condivide le preoccupazioni delle comunità ebraiche italiane e della loro presidente Noemi Di Segni?

Non sono preoccupato, sono molto preoccupato.

Vedo oggi in persone che nel passato avevano un atteggiamento di normalità nella relazione con il mondo ebraico, una difficoltà a pensare allo stesso modo. Per questo credo sia ancor più necessario mantenere i legami. Se i tempi sono difficili, sarebbe un gravissimo errore se noi non manteniamo i fili che ci legano agli altri e direi in questo caso al mondo ebraico che vive con noi, nelle nostre città, da Bologna a Torino a Roma.

Nel sussidio si dice che a partire dal 7 ottobre 2023, i rapporti tra cattolici ed ebrei, in Italia, sono stati difficili. Si parla di “sospetto, incomprensioni e pregiudizi”. Esiste un “antidoto” a tutto questo?

Il dialogo è l’antidoto perché il dialogo è la via alla pace e alla convivenza. Se noi non ci parliamo, come facciamo a conoscere il pensiero, la vita, i sentimenti e le speranze dell’altro? Ciò che manca oggi alla nostra società, non solo nel rapporto tra cattolici ed ebrei, è il dialogo. Oggi non ci si parla, non si ascoltano i giovani, non si ascoltano i vecchi, non ci si ascolta tra di noi.

Ci sono troppi io che camminano da soli e il mondo peggiora perché nella solitudine dell’io si diventa nemici e le distanze si allungano. Questa è la tragica realtà in cui viviamo.

Questo è il grave problema del nostro modo di vivere oggi insieme. Pensiamo alle guerre: se non c’è un dialogo, se non ci si mette intorno a un tavolo, come si fa a ipotizzare, a immaginare la pace? Ma ci sono anche segni di speranza. A Roma, per esempio, le diocesi del Lazio, ma non solo, in tante città le comunità hanno continuato a fare degli incontri tra cristiani e rabbini, proprio per non rinunciare a parlarsi, a dialogare, a esprimere la propria opinione, nel rispetto reciproco.

Cosa vorrebbe dire a loro?

Vorrei citare il capitolo 40 di Isaia, che è stato scritto in un periodo difficile per Israele esiliato. “Consolate, consolate il mio popolo, dice il vostro Dio. Parlate al cuore di Gerusalemme, e proclamatele che il tempo della sua servitù è compiuto; che il debito della sua iniquità è pagato”.

Il testo parla di consolazione e invita ad alzare la voce non per opprimere gli altri ma perché sia luce. Luce che illumina l’altro e l’altro illumina te. Quando ci parliamo, ci ascoltiamo, si accende una luce che rende possibile vivere insieme, sorelle e fratelli della grande famiglia umana, pur nella nostra diversità. Siamo diversi, non lo neghiamo, tante cose ci distinguono, ma queste non possono essere motivi di divisione e ancor meno di violenza, di sospetto, di rifiuto dell’altro. Questo credo sia la luce di speranza che il profeta Isaia proclama in un tempo difficile e ci indica oggi il cammino da percorrere nel Giubileo che stiamo iniziando a vivere.

Maria Chiara Biagioni (Agensir)