Migliaia di persone percorrono la rotta balcanica, vivendo situazioni estremamente pericolose, per tentare il “game”. Una tragica sfida che comincia da lontano, attraverso innumerevoli frontiere, per raggiungere l’Europa. A raccontare questa realtà è la faentina Elisa Attanasio, ricercatrice all’Università di Bologna, dove insegna letteratura italiana contemporanea. A fianco di questo lavoro, è anche attivista sulla rotta balcanica, dove cerca di portare solidarietà alle persone in movimento. «Ogni volta mi appoggio a Ong che stanno sui confini e aiutano in diversi modi – racconta – ad esempio montando docce dove ci si può lavare e poi dare il trattamento per la scabbia, portando cibo, vestiti, scarpe e sacchi a pelo, o ancora medicando le ferite e distribuendo farmaci in caso di bisogno». Ha raccontato questi suoi viaggi nel libro fotografico Sulla rotta balcanica (Prospero editore, 190 pag, 15 euro).
Intervista alla faentina Elisa Attanasio: il suo libro fotografico racconta la complessità delle migrazioni
Attanasio, come è nato il libro?
Dopo un primo, lungo periodo passato come volontaria ad Atene nel 2022, ho continuato ad andare e tornare sui confini della rotta balcanica, raccontando quello che vedevo sulle frontiere, che sono filtri dove le persone vengono classificate: ci sono corpi che contano e corpi che non contano. Tenevo un blog (ancora attivo), dove ogni giorno caricavo una pagina, come un diario di bordo, fatta di brevi testi e fotografie. Poi è successo che un editore di Milano, Prospero, mi ha contattata per propormi di farne un libro con loro.
E così è nato Sulla rotta balcanica.
Quali sono i luoghi che racconti?
Le principali tappe del viaggio (o meglio, dei viaggi) corrispondono alle quattro sezioni del libro: Bosnia e Croazia, Serbia e Bulgaria, Grecia, Italia. Si tratta di alcuni dei Paesi che la rotta balcanica attraversa, dove sono stata in modo discontinuo e non “in ordine”, negli ultimi due anni. Con “rotta balcanica” si intende il più importante corridoio migratorio per giungere in Europa dalla Grecia via terra. A causa dei conflitti e dell’instabilità politica, sociale ed economica in varie regioni del Medio Oriente, dell’Africa e dell’Asia, questa rotta è diventata il più importante corridoio di migrazione via terra in Europa, percorso da migliaia di persone ogni anno. È un intrico di passaggi che cambiano, siti formali e informali, violenza, campi, vie che si spostano insieme alle persone. Mi sono sempre recata in luoghi di confine: fabbriche in disuso, case abbandonate dove le persone in movimento stanno per riposare qualche giorno o qualche mese, squat, tende improvvisate, paesaggi “rotti” fatti di pavimenti di lattine, lamette, spazzolini da denti, pezzi di vestiti e di coperte.
Perché la rotta balcanica viene chiamata “Game”?
Le vie sono talmente difficili, i respingimenti frequenti e gli stalli continui, che si è cominciato a usare questo termine per indicare appunto il “gioco” delle partenze, degli attraversamenti rischiosi, dei ritorni aleatori e delle attese insensate. Forse per esorcizzarne la tragicità. Ci si prova e riprova infinite volte: se la polizia ti respinge, devi tornare indietro, accamparti dove puoi e tentare di nuovo.
C’è un episodio che hai vissuto che ha segnato un prima e un dopo?
Se dovessi individuare il momento in cui ho deciso che sarei tornata sulla rotta per scriverne, questo sarebbe una serata a Patrasso: sono stata negli squats vicino al porto dove decine e decine di ragazzi aspettano di partire per Ancona attaccati sotto un camion, nascosti negli anfratti dei mezzi che si imbarcano sui traghetti. Lì, in una stanza nera dal fumo, ho illuminato con la torcia del telefono le gambe di un ragazzo gravemente ustionate, mentre venivano medicate. Ho così continuato a tornare sulla rotta, sebbene ogni volta con più domande, perché una parte di me sentiva che era una cosa da fare, nonostante l’impotenza per la situazione, la rabbia verso le istituzioni, le decisioni insensate dei governi e la vergogna davanti al dolore degli altri.
Chi sono veramente le persone che cercano di arrivare in Europa?
All’inizio di questi viaggi, mi ritrovavo spesso a dialogare con le persone che incontravo, a porre le stesse domande da privilegiata che ha bisogno di ritrovare l’immagine della vittima costruita nell’immaginario occidentale: da dove vieni? Quali atrocità hai vissuto durante il viaggio? Dov’è la tua famiglia? Da dove sei partito o partita? Poi, ho capito che porre questi interrogativi era un’altra faccia del colonialismo, e il mio atteggiamento è cambiato. L’estate scorsa, in una grande casa abbandonata vicina al triplice confine tra Ungheria, Serbia e Croazia, mentre alcune infermiere e dottoresse fanno le solite medicazioni (scabbia, ferite ai piedi, abrasioni) e un’altra si allontana per fare il palo in caso di arrivo della polizia, scambio due parole con un ragazzo, usando Google translate, arabo / inglese. Mi scrive che è siriano, che è passato dalla Turchia e ha camminato tanto, per giorni senza acqua. Provo a fargli qualche domanda per capire meglio la situazione, ma mi rendo subito conto che le mie richieste non hanno senso. La complessità che ricerco, i miei tentativi di comprensione sono ridicoli: è andato via da una brutta situazione, e ora si sta muovendo alla ricerca di un posto tranquillo dove vivere e poter lavorare. Forse Germania o Olanda, non importa. Mi dice di volere solo trovare un luogo dove stare, una casa, una famiglia, un lavoro.
Che significa “giustizia” in questi contesti?
Ho molto riflettuto sull’idea di giustizia durante questi viaggi, e sui concetti di autorità e di potere. Se dovessi riassumere in poche parole, ti direi che da una parte c’è un’idea di Europa come terra promessa, all’interno della quale dovrebbero regnare l’accoglienza, la libertà e appunto la giustizia (mi è capitato varie volte di incontrare persone che avevano imparato in varie lingue i modi per richiedere lo status di rifugiato politico, come se fosse una formula nella quale credere, capace, di per sé, di aprire possibilità); dall’altra parte, i modi e le forme attraverso cui questa Europa si manifesta sono violenti e, spesso, illegali. Questo intrico molto complesso tra quello che consideriamo “legale” e quello che diventa “illegale” è attivo a più livelli: la polizia di confine si muove continuamente su questa soglia (i respingimenti sono illegali, così come, naturalmente, le pratiche violente messe in atto sulla frontiera: spaccare i telefoni, picchiare, lasciare le persone nude nel bosco); le attiviste e i solidali sono continuamente in bilico fra l’aiuto “legale” e l’accusa di reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina; le persone in movimento stesse mescolano, durante il loro viaggio, legalità e illegalità, a seconda dei bisogni e delle urgenze del momento (magari aspettano “legalmente” lo statuto di rifugiati politici in un campo, poi dopo mesi questo viene loro negato e devono “illegalmente” vivere ai margini).
Se dovessi indicare il filo rosso che accomuna le foto che hai fatto, qual è? Cosa hai voluto raccontare con le immagini?
È stato molto difficile scattare fotografie durante i viaggi, sia perché spesso vivevo situazioni che nel concreto non mi permettevano di prendere in mano la macchina, sia perché puntare l’apparecchio su una persona è un atto che può essere molto violento. Non fotografo mai persone (salvo rari casi in cui mi viene esplicitamente chiesto), bensì i luoghi attraversati, le tracce lasciate dai passaggi, alcuni dettagli. Il rapporto fra testi e immagini è molto semplice e diretto, quasi funzionale. Le giornate sono sempre molto piene, scandite da tempi rapidi; bisogna essere operative e lucide, anche nelle attese. Non avendo possibilità di prendere appunti, le foto fungono per me da note e promemoria; la sera, osservando le immagini, ricostruisco un racconto all’interno del quale cerco di far dialogare i due mezzi.
Cosa vuol dire raccontare la rotta balcanica “senza retorica”?
Non saprei risponderti, perché è una domanda che continuo a pormi. In effetti, il rischio della retorica e della spettacolarizzazione è sempre molto alto, specialmente a distanza. Un’ulteriore difficoltà sta nell’accettare – per quanto possibile – la posizione di privilegiata che racconta: già provengo da un paese colonialista, e in più mi ritrovo a narrare le storie dei migranti, rendendoli “oggetti” una seconda volta. Non so come si possa stare in questa situazione – dato che uscirne è impossibile -; io credo di aver trovato una sorta di compromesso nel modo in cui scrivo. Anche qui, come nella concretezza delle situazioni che vivo durante i periodi passati sulla rotta, cerco di occupare meno spazio possibile, di ridurre la mia voce. Ne esce uno stile asciutto, secco e distillato, perché non trovo altri modi per raccontare quello che vivo e vedo: nella scrittura, la riduzione del giudizio diventa assenza di aggettivi, e il tentativo di calmare i pensieri si concretizza in una sintassi scarna, paratattica ed essenziale.
“Il diritto alla vita è continuamente negato, e ciononostante continuo a vedere resistenza”
Quali pregiudizi ti ha fatto superare questo viaggio?
Il pregiudizio maggiore che è stato smontato riguarda la figura di “vittima”: le persone in movimento sono certamente vittime (di scelte politiche, delle situazioni tragiche che vivono, degli abusi della polizia…), ma dimostrano ogni giorno una potente agentività. Anche i soggetti più vulnerabili (penso ad alcune donne congolesi arrivate ad Atene senza nessuna conoscenza, analfabete, senza telefono, incinte o con figli piccoli) hanno l’incredibile capacità di trovare soluzioni, perché bisogna andare avanti. Questo mi ha colpito. Un altro pregiudizio smontato riguarda la figura del trafficante, che nel nostro immaginario (costruito dai media) è uno dei principali “colpevoli”: in realtà, si tratta di persone che in quel preciso momento, per tutta una serie di ragioni (mancanza di soldi, necessità di vario tipo) si ritrovano a compiere quel ruolo.
Come si sta evolvendo la situazione sulla rotta balcanica?
Purtroppo, mi sembra che la violenza sia sempre più perpetrata, a vari livelli, e da parte dei governi nazionali ed europei sia messa in atto una precisa tecnica di invisibilizzazione dei migranti, a cui si aggiunge una strategia di criminalizzazione: le persone in movimento sono abbandonate e rese estremamente vulnerabili, proprio a causa del loro statuto di ‘criminali’, ‘illegali’, ‘clandestini’. Il diritto alla vita è continuamente negato, e ciononostante continuo a vedere resistenza – sia da parte dei migranti che da parte dei solidali – che consiste in quegli atti di cura per sé e per gli altri che non ho mai smesso di vedere, e che leggo come un modo per opporre una voce e una presenza alle logiche di invisibilizzazione. Penso al Silos di Trieste, dove, in mezzo ai ratti, gli escrementi e il fango, un ragazzo tagliava con lentezza ed estrema precisione i capelli ad un compagno, mentre un altro ancora preparava con cura un chapati da cuocere sul fuoco. Tutto questo (la cura di sé e dell’altro, la ritualità, l’ascolto, il tempo preso per preparare un chapati o un tè, tagliare i capelli) lo vedo come strategia di resistenza. E funziona anche da parte delle attiviste: essere solidali non significa solo (per quanto sia fondamentale) rispondere a un’emergenza immediata (di cure mediche, o di cibo, o di vestiti): è anche la messa in pratica di una concezione più ampia che desidera smantellare le logiche di criminalizzazione razziale che lasciano le persone in movimento in una condizione di abbandono strategico. Le politiche di confine europee producono vulnerabilità e morte come condizione stessa del loro funzionamento, ed è proprio contro questa logica che si pongono le pratiche di cura, soccorso e assistenza messe in atto dalle persone solidali.
Samuele Marchi
Foto di copertina: Rachele Conti Ferrari
foto all’interno dell’articolo: Elisa Attanasio