Prosegue il nostro reportage per comprendere meglio cosa accade lungo la rotta balcanica. Dopo aver ascoltato le parole di Elisa Attanasio, lo facciamo ora con la testimonianza della faentina Ilaria Mohamud Giama, attivista e studentessa di Geografia all’Università di Bologna. In particolare sta approfondendo il tema delle migrazioni, della libertà di movimento e del concetto di confine nella storia contemporanea. Recentemente ha preso parte a una missione di monitoraggio grazie alla realtà di People on the move che da anni segue le zone interessate dalle rotte balcaniche.
Intervista a Ilaria Mohamud Giama, attivista che ha partecipato a una missione di monitoraggio. Dalle celebrazioni religiose per le persone “No name” al filo spinato lungo il confine
Giama, come è stata questa esperienza?
Molto forte. Le rotte balcaniche sono una realtà che spesso non viene approfondita e monitorare questi luoghi permette di vedere con mano diversi strati della storia che si intrecciano nell’attualità che stiamo vivendo. In questa missione siamo partiti da Trieste, luogo simbolo di arrivo e di partenze, per arrivare in Bosnia e a ritroso abbiamo attraversato Croazia e Slovenia. Abbiamo fatto diverse tappe tra cui Tuzla, Sarajevo e Bihac. Infine abbiamo attraversato il confine croato- sloveno a piedi per avere una panoramica concreta di ciò che vivono le persone in movimento.
C’è un luogo che più di altri fa comprendere cosa sia la rotta?
Sono tanti i luoghi rappresentativi, a partire dalle realtà di solidarietà, spesso criminalizzate, che si incontrano nel cammino fino ai veri e propri campi di detenzione nei quali vengono rinchiuse le persone, ma forse i luoghi più simbolici che vale la pena citare sono due: i cimiteri dei senza nome e il filo spinato tra i boschi nel confine croato-sloveno. I cimiteri dei “no name” (senza nome) sono dei cimiteri in cui vengono seppellite le persone che muoiono durante la traversata, persone di cui raramente si hanno informazioni. Durante il viaggio abbiamo avuto l’opportunità di assistere a una celebrazione in memoria delle persone migranti seppellite a Bihac. È stata un’esperienza forte e toccante alla quale hanno partecipato esponenti delle tre religioni che maggiormente sono praticate in quell’area: un sacerdote cristiano, uno ortodosso e l’imam del luogo erano uniti in preghiera per ricordare queste persone che hanno perso la vita attraversando questi luoghi. Questi cimiteri sono realizzati grazie alla collaborazione delle tre realtà religiose con i (pochi) attivisti del luogo che si impegnano a reperire informazioni sulle persone decedute cercando di mettersi in contatto con familiari e amici nei paesi di origine. Ancora oggi si sta cercando di identificare persone disperse probabilmente uccise e gettate in fosse comuni in seguito agli eventi degli anni ‘90.
Hai citato poi il confine croato-sloveno.
Sì. Nel bel mezzo di un bosco fitto ci si imbatte in un lunghissimo filo spinato a più mandate, nel cuore dell’Europa, per cercare di allontanare le persone in movimento. Questo è anche un luogo di numerosi respingimenti, come abbiamo constatato trovando cellulari, gps e powerbank distrutti, buttati in mezzo alle frasche. Questo luogo mi ha scosso perché mette in discussione una delle basi fondanti dell’Unione europea ovvero la libertà di movimento, che qui viene ostacolata da strumenti tangibili e che mettono in pericolo di vita persone che già sono in territorio europeo.
Chi sono le persone che cercano di arrivare in Europa occidentale?
In questo periodo la maggior parte delle persone in movimento sono persone di origine siriana e afghana, ma ci è anche capitato di parlare con congolesi e nigeriani in viaggio da mesi per raggiungere l’Europa. Uno degli incontri più toccanti è stato quello con M., ragazzo siriano ben istruito che voleva raggiungere l’Inghilterra per proseguire gli studi in medicina. Questo è il suo sogno più grande e, chiedeva a tutte le persone occidentali che incontrava se potevano aiutarlo. Ha conservato tutte la documentazione scolastica e universitaria conseguita in Siria riuscendo a portarla fino in Bosnia. Spesso mi capita di pensare a lui e di come sia ingiusto il mondo: in Italia questa documentazione che lui ha pericolosamente portato con sé non varrebbe nulla e dovrebbe ripartire da capo senza avere i diritti che gli spetterebbero. Abbiamo visto, infatti in questi giorni che l’Europa, compreso il nostro paese, sta bloccando le richieste di asilo alle persone siriane, fino ad arrivare in alcuni Stati come l’Austria ad addirittura revocarle.
Quali sono i sogni che hanno queste persone?
Le persone che si mettono in cammino hanno essenzialmente un sogno: quello di vivere in libertà e in pace. Il fatto che si mettano in viaggio in condizioni così pericolose dovrebbe far capire quanto le loro vite siano a rischio nei loro paesi di origine.
Il confine tra legalità e illegalità sulla rotta è molto sottile…
Per raggiungere l’Europa si deve spesso scendere a numerosi compromessi, come quello di vivere in pessime condizioni o di mettere a rischio la propria vita in luoghi che spesso sono gestiti o finanziati dall’Europa stessa. Ne è un esempio il campo di Lipa. Il campo si trova in un luogo isolato, a decine di chilometri dai centri abitati. Si tratta di un immenso campo finanziato dall’Ue, fatto di container uguali a quelli che abbiamo imparato a conoscere in Albania, dove le persone vivono in pessime condizioni igieniche, senza cibo necessario a sopravvivere e senza riscaldamento in zone dove la temperatura va spesso decine di gradi sotto lo zero. Viene naturale chiedersi come sia possibile che un’istituzione che si vanta di tutelare i diritti umani come l’Ue possa sostenere e spesso gestire luoghi come questo.
Cosa ti ha fatto capire questo viaggio?
Mi stranisce sempre come per me sia facile attraversare queste frontiere esibendo un documento, rispetto a quello che devono affrontare persone “colpevoli” di essere nate in paesi lontani dall’Europa. Questo mi spinge a chiedermi quale sia la differenza tra me e loro, una differenza che non esiste se non nei pezzi di carta.
Cosa può dare speranza?
La situazione sulle rotte è in continua evoluzione. Durante il monitoraggio siamo venuti ad esempio a conoscenza di un flusso sempre più numeroso di persone provenienti dalla Cina, si tratta di una dinamica abbastanza inedita in questi luoghi e ancora da comprendere a pieno. La speranza è quella di avere un’Europa che non faccia differenze tra cittadini di serie A e (non) cittadini di serie B. E questa speranza si può trovare nella “piazzetta del mondo”, la piazza della stazione a Trieste. Questo è il luogo dove l’associazione Linea d’ombra anni fa ha iniziato a dare supporto alle persone che arrivano a Trieste attraverso le rotte balcaniche, “un’isola felice”. Si tratta di un presidio fisico dove vengono dati pasti, vestiti e coperte alle persone in movimento. Sono presenti anche presidi sanitari composti da medici e infermieri volontari disponibili a fornirne un primo soccorso.
Perché ha senso raccontare tutto questo?
Per noi faentini potrà sembrare una realtà lontana, ma non è così: molte e molti dei volontari che abbiamo incontrato provengono proprio dall’Emilia-Romagna e spesso le persone che incontriamo per strada e che ci paiono “diverse” hanno affrontato questo lungo viaggio per raggiungere le nostre terre. Spesso ci sentiamo impotenti di fronte a eventi che ci sembrano più grandi di noi, è per questo importante raccontare che è possibile offrire un’alternativa, come il lavoro che stanno svolgendo i collettivi, le associazioni e le realtà che offrono aiuto e supporto alle persone in movimento, anche solo con un pasto caldo o un paio di scarpe in buono stato.
Samuele Marchi