“Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva”, dice la Costituzione. Ed è proprio l’articolo 53, base di un fisco progressivo, che ha usato il ministro Giorgetti, quando ha citato la necessità di intervenire su questo tema così delicato, una delle basi per far funzionare la democrazia Se le imposte in Italia sono in effetti progressive, con moderazione, per gran parte dei contribuenti, per i più ricchi diventano decisamente regressive, come mostra un nuovo studio di un gruppo di economisti dell’Università Sant’Anna di Pisa e della Bicocca di Milano, pubblicato sulla rivista scientifica “Journal of the European Economic Association”.

Il sette per cento degli italiani più facoltosi, circa 3 milioni di persone che incassano da 450mila euro l’anno in su, pagano un’aliquota effettiva che scende anziché salire. E per i patrimoni oltre i 15 milioni di euro, lo 0,1% degli ultra ricchi, precipita addirittura poco sopra il 30%, più bassa di chi guadagna 30 mila euro.

Più si sale al vertice della piramide del benessere, più contano le rendite finanziarie: azioni, bond, fondi di investimento. Strumenti che, a differenza dei redditi, sono tassati in maniera piatta al 26%. E poi ci sono le esenzioni e la non progressività delle tasse sulle eredità, proprio nel momento in cui la straordinaria ricchezza accumulata dai Baby Boomers, ha iniziato a passare a figli e nipoti: si stimano in 2.800 i miliardi che verranno trasferiti tramite eredità entro i prossimi 20 anni.

Nel resto del mondo, d’altra parte, di tassare di più i super ricchi si discute, per convinzione o necessità. Lo fa il presidente brasiliano Lula, da buon socialista, provando a imporla come priorità del G20; lo fa la candidata dem Kamala Harris negli Stati Uniti; lo fa il premier francese Michel Barnier, un conservatore, per puntellare le traballanti finanze d’oltralpe. Negli Stati Uniti i Patriotic Millionaires (duecento persone tra cui Abigail Disney e Valerie Rockefeller) chiedono più tasse: “Troppa ricchezza nelle mani di pochi è incompatibile con la democrazia e con la crescita”.

Come si corregge tutto questo? Nello studio gli economisti propongono diverse ipotesi di intervento, in grado di ristabilire la progressività del sistema e rendere ottimali i suoi obiettivi di redistribuzione. Tra queste anche una patrimoniale crescente, dallo 0,38% all’1,93%, sulle fortune di quei 3 milioni di italiani che oggi vedono le loro aliquote decrescere. Una tassa del genere garantirebbe pure al Tesoro un bell’incremento di gettito, dell’ordine di decine di miliardi. Ma è chiaro che un intervento su una platea così estesa sarebbe incendiario dal punto di vista politico.

Resta un’idea acquisita da decenni secondo cui le tasse sono un male e l’unica cosa che si può fare è parlare di ridurle: lo si è visto dalla reazione scomposta della maggioranza e della stessa Meloni alle parole del ministro Giorgetti. Se riflettessimo che a scuola, all’ospedale, sulle strade andiamo tutti e che tutti ci attendiamo buone prestazioni dallo Stato, forse varrebbe la pena che ci aspettassimo che anche tutti i cittadini contribuissero al buon funzionamento dei servizi, secondo le loro possibilità.

Diversamente sarebbero le stesse basi della democrazia ad essere in pericolo.

Tiziano Conti

Nella foto: Pieter Brueghel il Giovane, Il pagamento delle tasse (l’esattore), olio su tavola, ca. 1620-1640.