Voi, se il dialetto lo masticate ancora, ve lo siete mo mai chiesti quanti siano i significati che può avere il verbo fê’?
Mè ch’a l’bias da piò ‘d stânt en, non ci avevo mica mai fatto caso e se non era per la gatta di mia moglie, avrei forse tirato dritto per quelli che, puch o puraseˉ, u m’armasta da biasê. Cosa c’entra la gatta di mia moglie? C’entra, qvajõnzi se c’entra!
State mo da sentire. Dunque, avete da sapere che la bestiola in questione è rimasta, diciamo così, signorina per un paio d’anni, ma poi è saltato fuori un bel gattone e ben presto si è visto il risultato: un’enorme pancia che, scaduti i due mesi di gestazione, la gatta continuava a portare tranquillamente in giro con grande apprensione della sua padrona. Per tranquillizzarla (la padrona si intende) mi è venuto da dirci: “Sta trancvèla, la gata la farà cvând che farà la lona!”. Poi, preso il lunario, le ho fatto vedere che di lì a due giorni ci sarebbe stata la luna nuova che, lo dicevano i nostri vecchi, favorisce i parti. E così è stato: la gata l’ha fat (ha partorito) proprio il giorno ch’l’ha fat la lôna (in cui è iniziato il novilunio). Queste due espressioni del verbo fê’ (che sono identiche, ma hanno significati totalmente diversi), mi hanno fatto venire la voglia di snaslare per vedere di trovarne altri e, senza immatire troppo, ne ho messo insieme due bel due tre. Pescando fra i ricordi degli anni giovanili sono riaffiorati i discorsi che sentivo dalla nostra gente di campagna che, spesso e volentieri, parlava della terra e dei suoi prodotti; per lodare la fertilità di un podere si usava dire: “u j è una tëra ch’la fa d’ignicosa” oppure “u j è una tëra ch’la fa j óman”. Se poi l’argomento andava a finire su quello che si era coltivato o allevato si sentivano quasi sempre soltanto dei gran lamenti; qualcuno, per esempio, diceva che l’aveva fat de grân (aveva seminato del grano), ma che l’aveva fat pôc (aveva prodotto poco) e che, una volta messo nel magazzino, l’aveva fat ne˜c al parpàj (era stato rovinato dalle tignole); altri invece potevano avere di fasul ch’j aveva fat i tóngg (bucati dai tonchi) o un qualche animale ch’u s’ faseva pôc (cresceva male) e concludevano con un rassegnato: “Te t’fê’, t’fê’ (tu lavori, lavori) pr’armastê sôl la fadiga!”. Di significato esattamente contrario l’espressione s’u n’fa e’ s-ciòp, u j fa la pistöla (se gli fallisce un qualche cosa, ha sempre modo di sostituirlo con un qualcos’altro). Altre frasi con il verbo fê’ ricorrevano frequentemente fra noi ragazzi in occasione di litigi o discussioni: a j ave˜ fat al bòt (ci siamo picchiati), l’ha duvù fê’ galèna bagnêda o l’ha fat mucìna (l’altro se n’è andato o è rimasto lì mogio mogio). Bisognava però che la cosa non facesse troppo rumore perchè si rischiava di dover fê’ i cônt (di ricevere sgridate o punizioni) dai nostri di casa che ci raccomandavano sempre d’ no’ avê ‘d ch’in fê’ (di non immischiarci) con certa gente per non perdere la riputaziõ. A proposito di quest’ultima parola, mi torna in mente un giovanotto che faseva e’ cân (faceva il filo) a una mia vicina di casa. Dato che lui aveva la lómina d’esar bõ sôl d’fê’ e’ sacheri (di darsi delle arie), e d’fen pöca (di avere poca voglia di lavorare), u s’faseˉ fê’ al schêrp (se la fece soffiare) da uno che era il suo esatto contrario. Sempre parlando di reputazione c’era anche una signora non più giovanissima di una borgata vicina che se l’era giocata, ma solo da parte delle altre donne, che andavano dicendo con tutti che la faseva d’óman (si prostituiva); lei però del tutto indifferente non ci badava proprio e ci campava in grande tranquillità.
Int e’ fê’ mént (nel prestare attenzione) ai tanti significati di fê’ mi sono ricordato anche d’una sturnëla che sentivo cantare nei campi quando ero bambino e ve la riporto “E’ tira la curéna , la rimbofa e tót i raghéz (oppure al dón) dla Pì j’ha fat la mófa”.
U s’puteva pu ne˜c fê’ dal mòsi (fare dei gesti con la bocca, con le mani o scherzare) o fê’ di simitõni, che ha più o meno lo stesso significato. L’espressione fé’ di scvesi veniva usata per sottolineare, il manifestare incertezza, il non essere del tutto d’accordo su un qualche cosa. Per concludere, dato che siamo nella stagione in cui maturano fragole, ciliegie, albicocche, grano e orzo non posso tralasciare i tanti l’è fat, l’è fata, j è fët , al j è fati che usiamo ancora oggi per dire che i tanti prodotti dei nostri orti o dei nostri campi sono maturi e pronti da raccogliere.
P.S. Dato che alcuni mi hanno chiesto dove si può acquistare il libro scritto dal mio amico Romano Zama in cui ha raccolto i ricordi della sua gioventù, li informo che lo possono trovare presso l’edicola del Borgo Durbecco prima del Ponte delle Grazie.
Mario Gurioli