Stadio Azteca di Città del Messico, 17 giugno 1970, novantesimo minuto: l’uomo del destino era a ridosso nella nostra area di rigore per caso. “La partita era finita ormai, avevo guardato l’orologio sulla tribuna, temevo le proteste dei nostri tifosi e volevo avvicinarmi agli spogliatoi, che erano alle spalle della porta dell’Italia”. Karl-Heinz Schnellinger, scomparso ieri a 85 anni, tedesco di nascita e milanese d’adozione, nella sua carriera ha segnato un solo gol con la maglia della Germania, ma è quello che trasformò una brutta semifinale nella “Partita del Secolo”. Italia-Germania 4-3 sarebbe finita semplicemente 1-0 per gli azzurri, se in pieno recupero il difensore non si fosse prodotto nella memorabile spaccata che consegnò ai supplementari e alla storia quella “partita”. Proprio lui, Der Italianer, come lo chiamavano i compagni. Malato da tempo, Schnellinger è morto al San Raffaele di Milano. Terzino sinistro, ma anche destro o libero all’occorrenza. Da piccolo voleva fare il medico o il pilota, a dieci anni però iniziò a giocare nella sua città e la sua vita cambiò. A 19 anni fu convocato per i Mondiali del 1958 in Svezia, quelli in cui un altro ragazzino, Pelé, si impose agli occhi del mondo. Ne giocherà in tutto quattro edizioni, quanto agli studi, diventerà ragioniere. Sul suo profilo social, di recente, aveva messo la foto di una partita amichevole. Ma di quelle con tutti campioni in campo. Un’immagine in bianco e nero, datata 1963, e lui vicino a Lev Jascin e Alfonso Di Stefano, il primo unico portiere Pallone d’Oro e l’altro con cinque Coppe dei Campioni consecutive vinte con il Real Madrid. Era il Resto del Mondo e Schnellinger ci stava bene in quella squadra di sole stelle. Un campione sempre leale e onesto senza perdere in aggressività. Un difensore come pochi, il soprannome diceva tutto: Volkswagen. Perché era affidabile proprio come un’auto tedesca, di quelle che magari non vanno veloci ma non ti lasciano mai a piedi. Fu uno dei primi difensori tedeschi ad approdare in Italia: in patria era stato votato giocatore dell’anno, ma la Bundesliga non c’era ancora e lui guadagnava poco, 24 marchi al mese. A 24 anni la Roma lo comprò dal Colonia per un milione di lire, ne diede 300 mila a lui e lo girò in prestito per un anno al Mantova. Raccontano che, non sapendo l’italiano, si presentò all’allenatore Bonizzoli parlando in latino, o almeno ci provò. Poi una stagione nella Capitale e nove anni nel Milan, con uno scudetto, una Coppa dei Campioni, una Coppa Intercontinentale, due Coppe delle Coppe, tre Coppe Italia. Con la nazionale tedesca disputò anche la finale di Wembley del 1966, persa contro gli inglesi, con il gol “fantasma” di Geoff Hurst. Con lui, in quella partita c’era l’altro “italianoHelmut Haller, che avrebbe fatto sognare il Bologna e la Juventus. Se ne va un altro protagonista di quel calcio che era capace di farci sognare quando eravamo ragazzi. O forse succede che noi, invecchiando, ci accorgiamo di diventare un po’ più fragili.

Tiziano Conti