Quante volte abbiamo visto che sulle piazze bruciava la bandiera degli Stati Uniti, quale simbolo dell’imperialismo e del colonialismo che umilia i popoli? Oggi l’America di Joe Biden rimane ancora quel presidio internazionale a cui si deve necessariamente ricorrere per difendere la democrazia e la libertà dagli assalti degli integralismi nazionali e internazionali, civili e religiosi, che imperversano dentro gli Stati e tra gli Stati e si impadroniscono con violenza del potere cancellando i diritti umani. Le recenti prese di distanza degli Stati Uniti nei confronti di Israele, compreso il voto di astensione degli Stati Uniti sulla risoluzione al Consiglio di sicurezza dell’Onu del mese scorso che chiede un cessate al fuoco a Gaza, sono simboliche oltre che politicamente significative: si tratta del primo caso in cui l’America sceglie di colpire l’integralismo che erode la democrazia israeliana, piuttosto che proteggere qualsiasi cosa che faccia il governo di Israele, lo stato che è sempre stato un suo fedele alleato in Medio Oriente. La riprova è l’inizio di presa di distanza di diversi membri del governo israeliano verso Benjamin Netanyahu. Quale che siano i suoi interessi elettorali, l’aspra critica di Biden al governo israeliano va compresa nel quadro dell’attuale politica anti-integralista degli Stati Uniti. Altri aspetti della difesa della democrazia riguardano l’Ucraina dove a seguito dell’America si sono mossi gli esitanti europei che erano rimasti silenziosi sull’occupazione russa della Crimea. E quando sembrava che la Nato fosse destinata al tramonto, gli Stati Uniti hanno accettato di rinvigorire il ruolo militare dell’Alleanza in Europa patrocinando l’ingresso della Svezia e della Finlandia al prezzo di inasprire le tensioni conflittuali con la potenza nucleare russa. Certo, poi occorrerà trovare una via di uscita da quel conflitto: per questo però occorre che ci sia la volontà da entrambi i fronti, che – purtroppo – ancora non si vede all’orizzonte. Non è solo dalla pressione su Israele e dal contrasto alla Russia che emerge il carattere anti-integralista della politica di Joe Biden e del segretario di stato Antony Blinken. Ha ripreso vigore la strategia di contenimento del terrorismo islamista: le prove negative in Siria, Iraq e Afghanistan avevano indotto gli americani a ridimensionare l’impegno militare in Medio Oriente, con una sottovalutazione della politica iraniano. Oggi gli americani vanno a scovare gli Houthi, “partigiani di Dio”, nelle basi di terra, mentre Francia, Italia e Grecia pattugliano il golfo di Aden, per garantire la libertà di navigazione verso il canale di Suez. L’anti-integralismo internazionale è di nuovo una priorità dell’Amministrazione Biden nonostante le pulsioni isolazioniste che percorrono l’America. Queste scelte rinverdiscono quelle di Franklin D. Roosevelt nel 1941 e di Harry Truman nel secondo dopoguerra, quando istituì il piano Marshall e il Patto atlantico, dopo che in Europa era scesa la “cortina di ferro”, come la definì Winston Churchill. Purtroppo l’integralismo è stato ed è massicciamente presente anche negli Stati Uniti, ma le correnti liberali e democratiche lo hanno sempre sconfitto, all’insegna dei principi costituzionali e dei diritti dell’uomo: speriamo che riescano a continuare a farlo. Non sappiamo quel che accadrà il 5 novembre. Con gli attuali giochi, se vincerà Biden, è probabile che Washington continuerà all’interno a difendere la democrazia dall’ultradestra evangelica e dall’ultrasinistra intransigente e, all’estero, dagli integralismi statali di Russia, Iran e degli ultraortodossi israeliani. Se vincerà Trump, tutto è imprevedibile. Dal destino dell’America dipende anche il destino del mondo.
Tiziano Conti