Si è svolta il 23 marzo scorso la presentazione del libro Il Codice di Camaldoli. Un rinnovato impegno dei cattolici scritto dal notaio faentino Paolo Castellari. Riportiamo un estratto dell’intervento di Claudio Sardo, giornalista e pubblicista.
L’intervento del giornalista Claudio Sardo
Ringrazio gli organizzatori dell’evento, e in modo speciale il notaio Paolo Castellari che ci ha riuniti grazie al suo libro sul Codice di Camaldoli. Il libro è assai più di una celebrazione o di una scolastica divulgazione di quanto venne scritto ottant’anni or sono. La riedizione del “Codice” è accompagnata da ricche citazioni, da riferimenti letterali e artistici (anche da riproduzioni pittoriche), da altri documenti antichi e recenti e, non per ultimo, da ricadute sul vissuto del nostro tempo. Possiamo dire che questo libro trattiene il lettore fra due polarità. La prima polarità è certamente il testo del Codice di Camaldoli, con tutto lo stupore e l’ammirazione dell’autore per i contenuti, la lungimiranza e il coraggio di coloro che lo hanno redatto (come è stato detto: tra il ’43 e il ’45, quando non era chiaro lo sbocco della guerra e dell’occupazione nazifascista e quando discutere della fisionomia dell’ordinamento democratico era un atto di grande audacia). Vi è però una seconda polarità. E’ quella dell’attualizzazione del Codice. Del suo valore per l’oggi. Paolo Castellari incessantemente si preoccupa di rintracciare i fili che legano (o che possono legare) gli ideali dei giovani cattolici democratici di allora con le manifestazioni di solidarietà di oggi – ad esempio, i volontari che hanno aiutato a Faenza a risollevarsi dopo l’alluvione –, con le speranze di pace che non si arrendono alla tragica realtà della guerra, con la necessità di affrontare – dotandosi di principi e valori forti – le innovazioni prodotte dalle tecno-scienze e dall’intelligenza artificiale. Proprio questa seconda polarità, in realtà,svela ciò che appare come il vero intento dell’autore. Sostenere, e provare a dimostrare, che le linee ispiratrici, i principi del Codice di Camaldoli, non vanno relegati nel passato, benché si tratti di un capitolo tra i più gloriosi della nostra storia, ma vanno riscoperti perché sono tuttora vivi e possono aiutarci a indirizzare il nostro agire di oggi e di domani. Parliamo della solidarietà concreta tra le persone; della sussidiarietà come criterio di funzionamento delle istituzioni; dell’economia intesa come sviluppo equo e sostenibile di tutti e non solo come profitto, come mercato, come legge del più forte; della libertà indivisibile (o vale per tutti, o manca qualcosa di importanti a ciascuno); dell’uguaglianza che non può essere soltanto formale.
A questo proposito mi permetto di segnalare, perché li condivido molto, i passaggi del libro che riguardano il merito. Nel nostro tempo il concetto di merito e di meritocrazia tende a valorizzare i più bravi, i competenti o presunti tali, ai quali affidare compiti di maggiore prestigio e, ovviamente, maggiori guadagni. Nel Codice di Camaldoli non si parla di premiare chi già vale di più, ma della necessità per lo Stato di aiutare gli studenti meritevoli che provengono da famiglie povere. Su quella scia la Costituzione usa la parola “merito” nel famoso articolo 34: “I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno il diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”. Il merito, insomma, è concepito come una leva per accorciare il divario sociale che condanna tanti giovani. Castellari cita opportunamente Papa Francesco, il quale ha scritto nella recente Laudate Deum un paragrafo memorabile. Ne leggo solo un frammento: “Se non si cerca una reale uguaglianza di opportunità, la meritocrazia diventa facilmente un paravento che consolida ulteriormente i privilegi di pochi con maggior potere”. Può valere come pro-memoria per chi ha deciso di cambiare nome al ministero della Pubblica Istruzione… Certamente, negli intenti degli estensori del Codice di Camaldoli vi era un principio che poi è divenuto il motore dell’Assemblea Costituente. Non si trattava “soltanto” di dar vita a una democrazia dopo la catastrofe del fascismo. Si trattava di dare alla democrazia, e alla libertà, un solido contenuto sociale. Non per un’astratta ideologia. Ma perché si considerava la giustizia sociale esattamente come la controprova della bontà di un sistema democratico. La democrazia deve servire per far stare meglio le persone, tutte le persone, anche le più povere e svantaggiate. Il tema dei diritti, nel Codice, non viene mai posto al modo del liberalismo classico. Alla stessa proprietà privata sono posti i limiti dell’interesse generale e dell’utilità sociale. L’obiettivo è sempre la concreta esigibilità dei diritti da parte di tutti.
Lo Stato stesso non è riconosciuto come un potere sovrano, ma è sottoposto al più grave dei doveri: rimuovere continuamente gli ostacoli che impediscono lo sviluppo di ogni personalità umana. Il punto d’incontro della nostra Costituzione, che reca forte l’imprinting di Camaldoli, è proprio l’idea della politica, della democrazia, come processo, come continuo divenire. Un percorso in cui la dimensione sociale, cioè la crescita delle opportunità e la riduzione delle diseguaglianze, diviene il metro per misurare la concreta applicazione della Costituzione. La Costituzione che non è soltanto una norma fissata sulla carta. Fu proprio un giurista cattolico di grande fama, deputato alla Costituente, Costantino Mortati, che inventò il termine “Costituzione materiale” per fare i conti con le diversità tra la realtà concreta e gli ideali proclamati. E’ così che la Costituzione è divenuta una sorta di programma comune, per tentare di attuare – nonostante le circostanze contingenti e i venti contrari della storia – quegli obiettivi di libertà, di giustizia, di solidarietà, di cooperazione che erano stati posti come pietra angolare della nostra casa comune. Siamo una comunità. Ma comunità non vuol dire condominio. Senza l’amicizia, il rispetto, il dialogo, la comprensione, l’aiuto reciproco, senza questi elementi immateriali, anche la democrazia rischia di deperire. Lo vediamo oggi quando prevale la sfiducia, l’astensionismo elettorale, la paura, il ripiegamento nei propri interessi egoistici, l’erosione delle reti di solidarietà, l’isolamento delle forze associative e dei corpi intermedi. La catena persona-corpi intermedi (in cui vanno considerati la famiglia e i mondi vitali)- comunità-Stato è propria del personalismo. Ecco, se c’è una parola che identifica il prodotto di Camaldoli è proprio il personalismo. Il personalismo ha un’origine cattolico-democratica, negli scritti di Jacques Maritain ed Emmanuel Mounier, nelle pubblicazioni di Esprit, nella rielaborazione di Paul Ricoeur.
Il Codice di Camaldoli tradusse quei principi in un insieme di enunciazioni che avevano un carattere assai più generale di quanto non fosse il documento, coevo, conosciuto come “Idee ricostruttive”, attribuito ad Alcide De Gasperi ma anch’esso frutto di un lavoro collettivo e destinato alla fondazione della Democrazia cristiana. Le idee del Codice di Camaldoli furono portate alla Costituente e sostenute dai “professorini”, alcuni dei quali – Aldo Moro e Giorgio La Pira – parteciparono alla redazione di capitoli del testo. Tuttavia il personalismo (ovvero l’affermazione della centralità della persona umana e i suoi molteplici riflessi) è andato oltre il convincimento dei suoi primi sostenitori. E’ divenuto un punto di incontro, un fondamento condiviso. Questo è ciò che mi pare decisivo, e che vorrei sottolineare presentando questo bel libro. Si può dire che il personalismo abbia superato la radice dalla quale è nato, che sia riuscito a innervare culture e movimenti storici, e sia stato a sua volta arricchito e potenziato. Il personalismo è entrato nel pensiero e nella prassi delle forze democratiche e ne ha mutato alcuni caratteri. Ad esempio, fornendo materiale critico verso il determinismo e l’economicismo, presenti nel mondo liberale come nelle sinistre storiche. Determinismo, cioè l’idea che il fine della storia in fondo sia segnato, inesorabile. Invece la storia umana è sempre aperta, e dipende dalle nostre scelte, dalla nostra libertà. Economicismo, cioè l’economia come unica vera architrave, capace di plasmare anche le relazioni umane, non solo nella società capitalista ma anche nelle lotte e nelle conquiste del movimento operaio. 5 Senza ridurre la società al dualismo tra individuo singolo e Stato regolatore, come voleva il liberalismo, senza sottoporre la persona alla supremazia dello Stato, come voleva il socialismo e il comunismo in nome dell’uguaglianza, il personalismo ha affermato il principio che la persona viene prima dello Stato, che le comunità vengono prima delle istituzioni, che la libertà è condizione di uguaglianza, che l’ordinamento ha una funzione di servizio. La Costituzione italiana ha colto il valore fondativo di questi principi e le forze antifasciste lo hanno riconosciuto come il terreno comune su cui erigere la Repubblica. E da qui si è avviato il cammino della democrazia, e del progressivo allargamento delle sue basi civili. Una Repubblica imperfetta, certamente, che però si è posta come dovere migliorarsi. Sarebbe impossibile accettare questa imperfezione, se avessimo della politica e delle istituzioni una concezione manichea (il bene contro il male).
Sarebbe impossibile riconoscere l’imperfezione se non si assumesse il fatto che persone, corpi intermedi e comunità preesistono allo Stato. Per questo, mi sento di dire che la nostra Costituzione è giovane. Giovane, dinamica, proiettata strutturalmente, costantemente a un miglioramento della società in nome della giustizia. Giovane, e non vecchia, come vogliono farci credere coloro che si propongono di stravolgerla. Maritain scrisse nel dopoguerra nella sua opera politica più sistemica, “L’uomo e lo Stato”, che il concetto stesso di “sovranità” è illusorio e va respinto perché “è tutt’uno con il concetto di assolutismo”. L’idea di sovranità prende forma in Europa con la nascita delle monarchie assolute. Ma Maritain contesta non soltanto la sovranità del Leviatano di Hobbes, contesta anche la sovranità del popolo di Rousseau, perché il mito della volontà generale può trasfigurarsi anch’esso in potere assoluto pretendendo di centralizzare il comando, di unificare la leadership, dimenticando il rispetto della pluralità, la valorizzazione delle diversità. E’ lo Stato personalista-comunitario il modello che Maritain vuole indicare e provare a costruire. Uno Stato-espressione della società, dove solidarietà 6 e coesione ne siano i presupposti irrinunciabili. L’Unione europea, e le culture costituzionali, hanno molto lavorato nei decenni per attenuare la portata “assolutistica” del concetto di sovranità. Hanno prodotto l’idea di sovranità condivisa tra le nazioni europee, hanno accompagnato la convergenza tra i diritti costituzionali dei Paesi… Anche se Maritain non poteva averne una così chiara visione, forse è proprio l’Europa la dimensione minima, essenziale di quello Stato personalista-comunitario del futuro, che egli immaginava. Assai più degli Stati nazionali, è l’Unione europea l’entità più idonea a far convivere il governo multi-livello, il pluralismo delle istituzioni, delle comunità, degli interessi, delle diversità. L’Europa manca nel Codice di Camaldoli. Ancora è immatura per gli intellettuali cattolici, a metà degli anni Quaranta, l’idea di un destino integrato del Continente. Questo dà certamente ancora più valore all’utopia di Spinelli, Rossi e Colorni. E’ incredibile il coraggio di questi uomini – gli autori del Manifesto di Ventotene e gli autori del Codice di Camaldoli – che sono stati capaci di andare così avanti con il pensiero, di vedere lontano e di trascinare, pur partendo da condizioni disagiate, senza libri, reclusi da una dittatura pervasiva, attorniati da un contesto di terribile omologazione o paura. La visione internazionale del Codice, anche senza Europa, era tuttavia proiettata verso la costruzione di organismi sovranazionali, capaci di instaurare un nuovo ordine e diritto mondiale. Senza più l’aggressività, il nazionalismo, la volontà di potenza che aveva portato il Novecento a precipitare nell’abisso dell’umanità. Nel Codice, accanto a grandi intuizioni, troviamo anche retaggi culturali di tempi passati.
La descrizione del ruolo della donna, della struttura della famiglia, dei diritti dei figli risentono delle convinzioni del tempo, anche se è opportuno – come ha fatto Castellari – sottolineare come l’idea personalista costituiva pur sempre una leva di avanzamento, una spinta verso la liberazione da pregiudizi e verso la conquista di nuovi diritti. Anche 7 la percezione di una società omogenea (ancora prevalentemente agricola ma comunque destinata a uno sviluppo industriale) ci appare distante dalla società multiculturale e multireligiosa di oggi. Al di là della necessaria storicizzazione dei testi del Codice, resto convinto, come Castellari, che il personalismo resti oggi una miniera d’oro per le forze politiche e sociali impegnate per ideali di giustizia e di libertà. Il personalismo non è una filosofia cristallizzata negli scritti del passato. C’è un personalismo che si è fatto strada nelle culture del Novecento, che ha oltrepassato il secolo e si è anche arricchito di nuovi affluenti. Rivendicare la matrice cristiana e cattolica, rende orgogliosi. Ma può esserci tanto orgoglio anche nel reinterpretarlo – insieme ad altri – alla luce dei segni dei tempi. Abbiamo davanti sfide inedite, neppure immaginabili ottant’anni fa. Ad esempio, la rivoluzione tecno-scientifica, che apre scenari inediti per l’umanità con le neuroscienze, l’intelligenza artificiale, la robotica avanzata, la manipolazione genetica. E’ un cambiamento velocissimo e potentissimo che sta mettendo in discussione – è inutile negarlo – la stessa identità della persona umana nei suoi tratti irriducibili di unicità, libertà e dignità. L’impegno politico, oggi ancor più di ieri, ha bisogno di una “ermeneutica della persona”, capace di tener conto, di integrare tutte le componenti indivisibili dell’essere umano: la coscienza, l’intelletto, il corpo, la volontà. Il rischio, altrimenti, è l’impotenza dell’azione politica, la sfiducia, il nichilismo. Il lavoro sta già cambiando, la società è trasformata da comunicazioni globali e tecnologie pervasive, e una sfida epocale, direi antropologica, si presenta con tutta la sua forza sconvolgente: il cambiamento climatico, e dunque la necessità e l’urgenza di mutare il modello di sviluppo. Mi limito a richiamare l’enciclica di Papa Francesco “Laudato Si’”, che ci ha consegnato la chiave dell’ecologia integrale, contributo preziosissimo al pensiero umano, anche oltre la dimensione religiosa. Non ci sarà equilibrio ambientale, senza una riduzione delle diseguaglianze. Non ci sarà giustizia sociale, senza giustizia ambientale. L’ecologia integrale è uno sviluppo del personalismo. Un salto in avanti.
E’ riconoscibile il suo dna, ma soprattutto è possibile guardare un nuovo, ulteriore orizzonte. Un’ultima considerazione – mi sia permessa – sulla Chiesa. Il Codice di Camaldoli nasce da una spinta ecclesiale, non dal circuito politico della nascente Dc. Impiega quasi due anni, dalla riunione del luglio ’43 per venire alla luce, non solo perché le case di Sergio Paronetto e di Giuseppe Capograssi erano controllate, o perché Ezio Vanoni era nascosto in una clinica, ma anche perché i teologi incaricati di seguire i lavori sono molto accurati nei giudizi e nei suggerimenti, fedeli al mandato di far collimare il Codice con la dottrina sociale. E’ dunque la Chiesa che sollecita i Laureati Cattolici e l’ICAS a discutere e a scrivere i “Principi dell’ordinamento sociale”, poi passati alla storia come Codice di Camaldoli per similitudine con il Codice sociale di Malines del 1927. L’intento è quello di indicare una rotta per i cattolici, per il loro futuro nel Paese, visto che il mondo di prima, quello dell’Opera dei congressi, del patto Gentiloni, delle istituzioni liberali, del Partito popolare si era dissolto con l’avvento del fascismo. Viste anche le complicità della Chiesa concordataria con il fascismo. E visto, per fortuna, che una parte tutt’altro che marginale del mondo cattolico, della stessa Azione cattolica, aveva continuato a vivere, a pensare, a fare educazione, a far circolare idee, a immaginare un domani diverso. In quelle giornate di Camaldoli del ’43, pochi giorni prima della riunione del Gran Consiglio del fascismo che disarcionò Mussolini, si accesero delle luci, che contribuirono ad illuminare il cammino anche della Chiesa. Fanno impressione le parole di mons. Adriano Bernareggi, vescovo di Bergamo, che presiedette la riunione nel convento di Camaldoli. Fanno impressione perché sembrano pronunciate al Concilio venticinque anni dopo: “Non è saggezza lasciarsi rimorchiare dalla storia, bensì il saperla dominare. I cattolici devono scendere dal puro mondo concettuale e dall’astrattezza dei principi, per applicare questi alla vita, quale essa è in concreto. Devono uscire dalla torre d’avorio della verità posseduta per andare incontro a quanto vanno in cerca della verità”.
E’ chiaro che discutere di Camaldoli riapre il teme della presenza politica dei credenti. Finita la Dc, oggi ci sono credenti nelle diverse forze politiche. Non pochi lanciano l’accusa che sono diventati irrilevanti. Eppure c’è un Papa che pronuncia parole coraggiose e fortissime. Un Papa che è un punto di riferimento nel mondo. Dice che l’economia che uccide. Grida contro la cultura dello scarto. Parla di lotta per il lavoro, per la casa, per la dignità di ogni essere umano. Un Papa che sferza i governi del mondo chiamandoli al dovere di costruire la pace. Parole che nessuno pare capace di pronunciare con simile forza e coerenza. Parole vicine, vicinissime a quelle che troviamo dal Nuovo Testamento. Ci sono stati momenti nella storia dell’umanità in cui il ritorno alla radicalità evangelica, al Vangelo sine glossa, ha costituito per un verso una rigenerazione della Chiesa per un altro verso un’occasione di rinascita per la società e per la cultura. Personalmente credo che questo Papa, il primo Papa non occidentale, non abbia nulla di integralista. Credo invece che abbia un forte senso della storia, e una percezione non edulcorata del passaggio che l’umanità sta affrontando. Avverte che assolutizzare la relazione tra religione cristiana e Occidente (come le componenti più reazionarie, di matrice confessionale o di matrice laica, stanno facendo) sia un grave rischio per la fede e per il destino dell’umanità, che ha bisogno di riconciliazione e non di esasperare i conflitti. 10 La radicalità evangelica del Papa, dunque, ha una forte motivazione religiosa, ma contiene anche una ragione storica.
A mio giudizio, il tema della presenza dei credenti nella società andrebbe verificato alla luce non soltanto del passato, che induce spesso a qualche nostalgia di troppo, ma alla luce di questa domanda nuova che viene da un magistero così impegnativo: come far in modo che l’azione dei cristiani sia più vicina, più prossima ai valori evangelici. Ai valori della pace, dell’accoglienza, della fraternità, della giustizia, della libertà, del lavoro. In altre parole: al valore del pieno sviluppo della personalità umana, di ogni persona. Questa mi pare la sfida attuale, all’altezza di quella che affrontarono i giovani che si riunirono a Camaldoli. Allora sfidarono la pigrizia in un’ora buia. Non cercarono, non si collocarono in un punto mediano. Provarono a farsi carico della costruzione di una nuova democrazia, diversa da quella dei primi due decenni del secolo. La loro fu una scelta rivoluzionaria. Oggi la sfida non è meno difficile. Ci vuole coraggio nel mondo disintermediato, dove il compromesso sembra la chiave indispensabile per il potere e dove il potere si mostra spesso incapace di aprire strade nuove. E’ un momento, questo, in cui non serve il “moderatismo” cristiano, ma servono testimoni coerenti, esigenti di umanità e fraternità, capace di forzare anche il realismo politico, la realpolitik, in nome di una maggiore giustizia, e di forzare la rassegnazione di chi ha smesso di sognare un domani migliore.