La sfida dell’educare oggi ha un prima e un dopo rappresentato dal Covid. Se all’inizio era difficile delineare gli effetti della pandemia sui giovani, oggi questi aspetti sono ben tangibili, con fenomeni di isolamento sociale da un lato o di baby gang e devianze dall’altro. «Siamo però noi adulti i primi a doverci mettere in discussione» spiega la pedagogista Martina Tarlazzi, con cui approfondiamo il tema. La dottoressa Tarlazzi è stata relatrice a due incontri promossi dal Servizio Tutela minori della Diocesi di Faenza-Modigliana all’interno del percorso “Chiesa, famiglia educante” rivolto a catechisti, educatori, capi scout.

Intervista alla dott.ssa Martina Tarlazzi: “Noi adulti per primi ci dobbiamo mettere in discussione”

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Dottoressa Tarlazzi, perché il Covid rappresenta uno spartiacque in merito alle nuove generazioni?

Durante il lockdown tante famiglie hanno vissuto una convivenza non facile all’interno delle proprie case. Se per gli adulti ha significato, per esempio, smart working, per bambini e soprattutto adolescenti quel tempo sospeso, chiusi in casa, ha portato tanta rabbia e insofferenza.
La condizione dei giovani di per sé è “impotente” rispetto al mondo degli adulti, e il lockdown ha acuito le criticità. Anziché uscire con gli amici o sperimentarsi fuori, bambini e adolescenti erano costretti a stare in casa, in una routine che ha bloccato tutta la loro energia, che in un qualche modo doveva uscire fuori. Vedere poi in primis gli adulti in difficoltà a gestire le fatiche del lockdown non ha aiutato. Ecco perché i giovani hanno manifestato questa insofferenza con episodi di provocazione verso i genitori, il mondo adulto, nei casi più gravi sfociati in veri e propri episodi devianti. L’altro aspetto, non meno secondario, è quello dell’isolamento sociale. Ci si è chiusi in una bolla, in un rifugio, per scappare dalle problematiche e da lì non si è voluti più uscire. Nemmeno con il ritorno alla normalità.

E così veniamo all’oggi.

Gli effetti di quello che è stato li vediamo concretamente solo ora. Dopo la Dad alcuni non sono più tornati a scuola e si sono rifugiati nel virtuale conosciuto durante la pandemia. Il numero dei giovani che fanno fatica a riadattarsi al ritmo iper-performante imposto dalla società è molto alto. Si sentono inadatti. Come sottolinea il neuropsichiatra Stefano Vicari, dopo il Covid la diagnosi di malattie mentali tra gli adolescenti è aumentata in Italia del 30%. Nel ritorno alla normalità si sono sviluppati atteggiamenti bipolari, estremi. La rabbia repressa durante la pandemia è sfociata in episodi di degrado o nel fenomeno delle baby gang. Quando ci sono atteggiamenti forti è il loro grido d’aiuto verso un mondo che non li sta ascoltando.

In che senso?

Cercano risposte forti dagli adulti, ma spesso queste risposte non arrivano. A maggior ragione dopo il Covid, i ragazzi hanno poca fiducia verso il mondo adulto. Spesso hanno visto un mondo adulto poco autorevole nella gestione dell’emergenza. Abbiamo bisogno di ritessere legami di fiducia con loro e dobbiamo farli vivere in ambienti educativi forti, solidi, che diano loro certezze e senso. Il loro disagio è frutto del nostro disagio.

Cosa cercano i giovani dagli adulti?

Risposte vere e autentiche. Dei ’fari’, pur imperfetti. E un educatore deve prima di tutto lavorare su di sé, guardarsi dentro, testimoniare di essere persona in cammino. Per me non può esserci un educatore che non sia in ricerca della propria spiritualità, in ogni sua forma. Non posso aiutarli nel coltivare un rapporto con Dio se non lo faccio io in prima persona. E questo va testimoniato nell’azione quotidiane: essere cattolici, nel caso degli educatori che operano all’interno di un contesto diocesano, è aderire a Gesù.

Quale atteggiamento avere?

Sono giovani che hanno una sensibilità emotiva molto più forte rispetto alle precedenti generazioni. Non dobbiamo avere un tono sempre giudicante su di loro, ma cercare di comprendere perché facciano certe scelte. Penso per esempio alle provocazioni che ci lanciano. Non dobbiamo cadere nelle loro provocazioni, ma cercare di comprenderle, metterci in dialogo. Questo in famiglia, così come a catechismo, agli scout, nei campi scuola. Una volta si praticava la cosiddetta pedagogia ‘nera’, quella delle ‘sane’ sberle per intenderci. Ma la violenza, anche con presupposti educativi, genera solo altra violenza come risposta. Al tempo stesso, adulti troppo accondiscendenti non riescono a dare loro quelle risposte forti che cercano. Una pedagogia ‘eccessivamente dolce’ è altrettanto sbagliata. E bisogna sempre lavorare in équipe, mai da soli.

E la scuola?

Negli ultimi anni sono stati fatti passi avanti sul tema dell’educazione affettiva. La cosa importante è che la scuola faccia anzitutto bene il suo compito: insegnare e far fiorire i talenti di ogni bambino. Studenti che sappiano parlare correttamente, leggere, ragionare, elaborare testi argomentativi diventano giovani più consapevoli di sé e meno schiavi dell’esterno, valorizzando le proprie capacità. Al di là delle mode pedagogiche, questa deve essere la base.

Ha detto che non basta il singolo per educare. Come aiutare queste generazioni a livello strutturale?

Sicuramente a Faenza si sta lavorando molto su questo tema, penso per esempio alle attività proposte dal Centro per le famiglie. Servono però più servizi intermedi di prossimità territoriale, capaci di intercettare quei giovani in difficoltà prima che le loro problematiche diventino difficilmente gestibili. In questo può fare tanto il mondo dello sport e quello delle parrocchie, che devono essere ambienti aggregativi e accoglienti con tutti. E non bisogna aspettare che arrivino i giovani, ma andare loro incontro. Anche a Faenza stanno nascendo dei begli esempi di oratorio di strada che vanno in questa direzione. Intercettare il disagio degli adolescenti prima che questo esploda è fondamentale, altrimenti l’unica soluzione, in certi casi più critici, diventa direttamente l’ingresso in una comunità di recupero. Vanno perciò fatti investimenti, anche economici, per supportare servizi di prossimità.

Come servizio intermedio di prossimità, possiamo citare il Centro L’Agora di Bagnacavallo in cui opera. Una sua caratteristica?

Un aspetto fondamentale di questi luoghi deve essere la loro bellezza. Proprio perché abbiamo a che fare con tanti ragazzi che hanno bisogno di aiuto, dobbiamo rilanciare e proporre loro i più bei progetti possibili. Anche l’ambiente educa, come ci ha insegnato la Montessori. Per cui dobbiamo prestare massima attenzione nella cura degli spazi e nel proporre attività in cui ognuno possa sentirsi valorizzato e voluto bene.

Samuele Marchi