Il messaggio di papa Francesco in occasione della XXXII Giornata Mondiale del Malato dell’11 febbraio prossimo mi sollecita a una riflessione personale e ringrazio il direttore di questo giornale per darmi questa possibilità. A seguito degli eventi di queste settimane riguardanti “la Vita” (parlare di solo “fine vita” mi sembra riduttivo), ho riletto due testimonianze lasciate nel “diario di bordo” del nostro Hospice Villa Agnesina, a Faenza.

Lo scritto di un paziente, padre di famiglia

«Sono stato ricoverato all’hospice per poter fare un ciclo di radioterapia. Non camminavo bene e avevo dolore, così mi hanno proposto quello che non avrei mai voluto accettare. Non mi sentivo un malato terminale, avevo paura che mi potessero fare dei sedativi a mia insaputa. Volevo stare con mia moglie e i miei figli piccoli, tornare a casa, avere speranza, ritrovare un senso nella mia vita, anche se legato a stampelle o sedia a rotelle. Ho terminato le mie cure, il dolore va meglio, e mi hanno dimesso dall’hospice. Riesco a camminare con busto e stampelle, mi stanco facilmente, ma sono uscito dall’hospice e sono a casa. La cosa però più importante però è stata la fiducia e la speranza che le persone dell’hospice mi hanno trasmesso, anzi dico meglio, hanno ritirato fuori quelle fiducia e speranza che erano assopite dentro di me.

Il pensiero di uno studente delle scuole superiori

«Avevo paura solo a passare davanti ai muri dell’hospice… pensavo al dolore di chi stava là dentro… credevo che medici e infermieri fossero persone tristi, quasi costrette a lavorare là dentro. Ho fatto 4 settimane di stage grazie alla mia scuola. Ho trovato un ambiente bello, colorato, persone vive, attive, incredibilmente serene tra loro e con i malati, capaci di scherzare, a volte di dire sciocchezze pur di rendere piacevole il rapporto con i malati. Ora non sento più paura a passare davanti all’hospice… a volte ci penso. Per Natale sono tornato a salutare quella che chiamano équipe, mi hanno fatto una gran festa».

“I giovani chiedono di conoscere le problematiche sulla vita, sul consenso delle cure”

Papa Benedetto e papa Francesco in numerose occasioni ci hanno sollecitano a prendere in considerazione questa emergenza: rieducare l’uomo di oggi. I recenti sondaggi raccontano che più del 70% dei giovani delle scuole italiane chiedono di conoscere le problematiche sulla vita, sul consenso alle cure. Ripartire dalle scuole, dai giovani, per ricreare una cultura dell’accoglienza, dell’attenzione all’altro, del coraggio di affrontare le difficoltà di malattie, disabilità, fragilità, sofferenze e il morire come parte della vita stessa, con generosità e speranza. Questo mette in campo noi stessi, non solo i medici o gli operatori sanitari, ma la nostra comunità di persone unite dal cammino della vita e il nostro desiderio di confronto e sfida sul tema della vita cosi da renderlo attraente e affascinante per i nostri ragazzi.

La realtà

Finevita

I medici riferiscono di essere sempre più insoddisfatti e frustrati. I pazienti sentono i medici lontani, legati alla loro scienza ma poco accoglienti o alleati. I famigliari dei pazienti tante volte arrabbiati fino a chiedere l’intervento sempre più frequente dei giudici per valutare se le cure fatte erano appropriate. Non si accetta la “ammalabilità” come una possibilità concreta della vita. Si rifiuta e si nasconde il morire. Forse abbiamo perso per strada qualcosa. Forse abbiamo pensato che il cuore del problema fosse dare «più tempo di vita» alle persone, più farmaci, più strutture, tralasciando il cuore della cura che sta nel rapporto personale tra chi cura e chi è curato e quindi «più vita al tempo». Accogliere, ascoltare, dare dignità, stare vicino, dare speranza, … avere a cuore.

La speranza

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Recentemente è stato pubblicato un libro intitolato Di cosa è fatta la speranza. Un romanzo luminoso che racconta il misterioso abbraccio tra il dolore e la speranza e ci riguarda tutti. L’autore Emmanuel Exitu racconta la storia di Cicely Saunders, una donna dalla caparbietà visionaria che ha inventato le cure palliative e innovato la terapia del dolore con ricerche e procedure rivoluzionarie, tuttora considerate dall’Oms il gold standard nel migliorare la qualità della vita dei malati «affrontando ogni dimensione del dolore: fisica, psicologica, sociale, spirituale». È stata infermiera e assistente sociale e poi medico, ha lottato tutta la vita per restituire dignità ai malati terminali, che fino agli anni ‘70 del Novecento erano abbandonati dai medici dietro al giudizio «non c’è più niente da fare». Per lei, invece, «c’era ancora molto da fare».

E, contro la medicina ufficiale, guidata dalla fede e dal suo spirito scientifico, lo fece: realizzò il «miracolo bilanciato» di unire l’amore per l’uomo e la passione per la medicina e fondò il primo hospice moderno nel 1967 a Londra. Il valore dell’esperienza di Cicely Saunders non è un fatto del passato o del secolo scorso, ma è ancora presente e attuale oggi. Alcuni palliativisti italiani (fondatori di un gruppo di lavoro chiamato “Sul sentiero di Cicely”) sta mantenendo vivo il suo insegnamento come fondamentale per le Cure Palliative moderne, quelle del 2024: vicinanza e competenza.

La vicinanza è parte fondamentale della cura. La vicinanza e la modalità di guardare la persona malata, creano i presupposti della dignità della persona stessa. La dignità parte dallo sguardo di chi cura e sta vicino. Vicinanza e competenza vanno però coltivate, aiutate, formate. Non basta essere «buoni» per fare bene le cure palliative. Servono operatori «buoni» certamente, o meglio con una buona attitudine, ma serve formazione per migliorare le proprie competenze e un lavoro su di sé, per poter trovare ogni giorno le ragioni profonde del proprio operare.

Nel nostro tempo e soprattutto in questi ultimi anni si sollecita la libertà del malato e la sua autodeterminazione, soprattutto focalizzata nel «voglio essere io a scegliere come morire». Il malato da solo come fa a essere libero, quando è condizionato dalla sua malattia. La realtà della malattia condiziona le sue scelte ed è fondamentale per questo una compagnia di amici e professionisti che gli siano accanto, lo aiutino a ritrovare ogni giorno le ragioni del vivere, facciano sentire viva e rendano un valore la sua presenza tra di noi. Per questo motivo si può parlare di un’autonomia «relazionale». La persona ammalata può non essere sola davanti alla sofferenza e alle scelte della vita se è dentro una relazione di cura e amicizia capace, con carità, di farsi carico dei suoi bisogni e sofferenze e di rendere il suo vivere più lieve e umano.

dr. Luigi Montanari, direttore Hospice “Villa Agnesina” di Faenza