Il 15 ottobre scorso padre Filippo Aliani ha fatto il suo ingresso come parroco della parrocchia del Santissimo Crocifisso dei Cappuccini a Faenza. La celebrazione è stata presieduta dal vescovo, monsignor Mario Toso. Con lui sono arrivati anche altri tre frati: padre Cristian Lupu e padre Eduard Imbrea dalla Romania e padre Romano Mantovi, proveniente da Bologna. Un bel segno di vitalità per tutta questa comunità. «Dobbiamo essere grati – ha detto il vescovo Mario nell’omelia di insediamento – al ministro della Provincia dei Frati Minori Cappuccini dell’Emilia-Romagna, che ha dimostrato una grande attenzione nei confronti di questa comunità parrocchiale, ma anche dell’intera comunità diocesana». A un mese dall’arrivo, conosciamo meglio padre Filippo.

Intervista a Padre Filippo

Padre Filippo, che parrocchia ti ha accolto qui a Faenza?
Ho trovato una parrocchia bella e vivace. Ci sono tante iniziative e vedo molta attenzione alle esigenze della comunità. In questa prima fase, sto cercando di conoscerle tutte per poi capire come accompagnare al meglio la parrocchia nel suo cammino.

Sei arrivato in una città ferita dall’alluvione.

Anche una parte della nostra parrocchia è stata alluvionata. E, prima dell’alluvione, sicuramente il territorio è stato ferito anche dalla pandemia che ha creato tanti disagi sociali. Si percepiscono ancora paura e difficoltà e diverse famiglie vivono in una situazione provvisoria e incerta. In questo contesto difficile, penso sia importante e bello collaborare con la Caritas e con altre realtà per creare occasioni di vicinanza e relazione. Far sentire la concretezza della carità e stare a fianco di tutti, specialmente i più bisognosi.

L’arrivo di tanti nuovi frati nella parrocchia è un segno importante.

Si. È stata fatta una scelta che dimostra che ci si tiene e si vuole investire in questa comunità. Noi frati cappuccini in realtà gestiamo più conventi che parrocchie, ma attraverso la pastorale c’è la possibilità di entrare in contatto con famiglie e giovani e avere un’apertura piena verso la comunità. E questo, a me personalmente, piace molto. Si intrecciano i cammini con la vita delle persone.

Da Faenza a Fidenza, la tua città. Torniamo indietro col tuo percorso. Come è nata la tua vocazione?

Ho vissuto in una parrocchia di frati a Fidenza. Ed è stato questo contatto con la vita di fraternità che mi ha affascinato. Erano sempre molto accoglienti e ci hanno chiamato a condividere la vita con loro. Il messaggio più forte che mi hanno lasciato è quello di essere vicino agli ultimi e vivere in maniera piena il Vangelo e un mondo solidale verso i nostri fratelli e sorelle.

Quali sono state le tue ultime esperienze di servizio?
A Faenza sono arrivato proprio dal convento di Fidenza. Gli ultimi anni sono stato lì, ma in precedenza ero stato in missione dieci anni in Romania e sette anni in Georgia.

Che cosa ti ha lasciato l’esperienza missionaria?
Sono stati anni impegnativi e appassionanti, dove ho vissuto esperienze che mi hanno fatto crescere a fianco di tante persone, a contatto con realtà difficili da immaginare in Italia. Dal 2002 sono stato a Sighet (Romania) vivendo, in un primo momento, in una casa-famiglia con otto ragazzini provenienti dall’orfanotrofio. Il fenomeno dell’abbandono dei bambini, purtroppo, è molto comune in queste realtà. Dopo un anno noi frati abbiamo aperto un oratorio, il Centro giovanile “San Francesco”, dove mi sono trasferito e che poi dall’autunno 2006 ha visto la nascita di una fraternità. Le attività che da allora sono nate sono varie e riguardano principalmente il sostegno alle famiglie, la collaborazione con gli orfanotrofi e l’ esperienze di missionarietà. In Georgia c’è stata un’attività pastorale svolta con la minoranza cattolica. Anche lì abbiamo incontrato gente semplice, ma molto ospitale, aperta e accogliente. Il primo anno è stato durissimo, ma abbiamo avviato l’oratorio per i bambini dove proponiamo attività ricreative e una catechesi biblica aperta a tutti non solo ai cattolici. Anche se c’era difficoltà nel dialogo ecumenico, è stato significativo creare attività assieme a cattolici, ortodossi e armeni.

Si sente sempre dire che la gente si sta allontanando dalla messa, dalla parrocchia, dalla fede. Come fare per dare vita a una Chiesa attrattiva?
Sicuramente, tornando in Italia, ho trovato una situazione e un contesto sociale molto diverso. Quello che mi porto dietro da quello che ho vissuto è l’importanza di instaurare relazioni autentiche e creare comunità. Si riporta la gente a messa se si comprende di stare vivendo un cammino insieme, sinodale, dove la celebrazione non è un atto formale o viene vissuta in maniera individualista. La dimensione comunitaria della fede è imprescindibile, così come la cura delle persone. Questo aiuta a vivere in maniera profonda anche gli aspetti liturgici, che sono aspetti legati alla vita e ci fanno incontrare Dio. È vero che la gente a volte percepisce il linguaggio della messa come difficile, poco vicino alla vita, e forse c’è da rinnovare qualcosa in questo senso.

Samuele Marchi