Tommaso è un medico anestesista, che attualmente lavora presso l’ospedale di Faenza. Da qualche anno dedica parte delle sue ferie per fare servizio medico presso alcuni ospedali in Africa: in Camerun, presso la cittadella dei Focolari di Fontem e in Congo, a Goma. Recentemente, sempre in Congo, al Centre Hospitalier “Chiara Lubich”, un piccolo ospedale aperto nel 2020 in una periferia poverissima della città di Lubumbashi, con circa 50 posti letto e una florida maternità. Anche quest’anno, a maggio, ha trascorso tre settimane in questo centro insieme a Sofia, ostetrica, e a Damiano, infermiere, anche loro operatori sanitari dell’Asl Romagna.
L’esperienza di Tommaso
Tommaso, raccontaci un po’ com’è nata la tua esperienza.
Già da qualche anno andavo all’ospedale di Fontem in Camerun, poi con Eugenio Ferri, medico chirurgo focolarino originario del piacentino, sono andato in Congo a Goma. Quando sono venuto a sapere che stava nascendo questo nuovo ospedale mi sono entusiasmato e sono voluto tornare. Ho reso partecipi anche amici, colleghi, collaboratori che si sono subito prodigati a dare il loro contributo: in ospedale c’era chi controllava le cose che si potevano dare in donazione, altri hanno messo a disposizione la loro casa per tenerle in deposito.
Quest’anno inoltre sono riuscito a portare dei ragazzi giovani che operano nel settore sanitario: un’ostetrica e un infermiere.
Per loro è stata una bellissima occasione per conoscere la realtà della sanità in Africa, relazionarsi con modi di lavorare diversi e avere uno scambio di competenze.
Come è nato questo ospedale? Come si inserisce nel contesto locale?
L’ospedale è nato grazie ad un principale finanziatore, un imprenditore locale che si è appassionato alla Economia di Comunione, un’idea lanciata da Chiara Lubich nel 1991. Ha conosciuto a Roma il professore Luigino Bruni, uno dei maggiori studiosi e divulgatori di questa teoria economica, e si è formato alla scuola degli imprenditori che vi aderiscono. Quindi l’ospedale è frutto dell’Economia di Comunione, ed è sostenuto dal focolare femminile lì presente, e da tutta la comunità locale che conosce e segue la spiritualità di Chiara Lubich. Questo ospedale è una piccola realtà, che però dà delle risposte importanti che altri ospedali, anche più grandi, non danno. Grazie al dottor Ferri qui si fa una chirurgia di eccellenza. In questi anni ha risolto varie problematiche sanitarie serie; i pazienti vengono da noi dopo essere stati in altri ospedali. A volte si vede che non sono stati curati bene e il dottor Ferri ha rimediato, anche se la strumentazione è carente.
Ora stanno costruendo vicino all’ospedale, una struttura che dovrebbe ospitare la radiologia. Il welfare in Africa non esiste quindi i nostri pazienti pagano l’ospedale come in tutti gli ospedali africani, ma quello che distingue il Centre Hospitalier “Chiara Lubich”, è che qui si ha un occhio di riguardo per le persone più in difficoltà: si fa la comunione dei beni, si permette di dilazionare i pagamenti, di fare degli sconti. Inoltre, si riesce a tenere bassi i costi grazie all’invio dall’Europa di materiali donati per l’anestesia, per la chirurgia, i punti di sutura, macchinari che non si usano più, anche se poi c’è il problema dell’assistenza.
Se in tanti siamo solidali si risolvono anche i problemi complessi
Cosa ti spinge a fare questo servizio sicuramente gratificante ma anche così impegnativo?
Son contento di farlo, vorrei poter continuare, anche se poi devo fare i conti con l’età, con la salute. Secondo me son quelle gocce che poi fanno l’oceano della solidarietà, per esempio oggi su tutti i mass media c’è la questione dei migranti, che partono dall’Africa. Il problema è complesso, però sento che progetti come questo ospedale possono contribuire: creando condizioni migliori e più possibilità di lavoro per gli africani. Se siamo in tanti a moltiplicare queste esperienze, le partenze sarebbero ridotte, perché potendo scegliere, ognuno sta bene a casa sua. Inoltre, contribuire all’ospedale con aiuti sia da Faenza e, soprattutto andando là, si favorisce una circolazione di cultura e di esperienze di aiuto reciproco.
Hai qualche episodio particolare da raccontare?
Un piccolo miracolo fra i tanti che capitano. Come operatori sanitari insieme alla comunità locale, ci si è presi a cuore dell’adozione a distanza di una bambina che aveva avuto gravissimi problemi di salute ed era stata operata dal dottor Ferri. Le cose sono andate bene e quindi è diventata la mascotte dell’ospedale. Ma non l’abbiamo aiutata solo da un punto di vista sanitario: adesso cerchiamo di pagarle gli studi per andare a scuola e speriamo, che in un futuro, possa lavorare nell’ospedale. È stata un’azione che ha entusiasmato sia il sottoscritto sia i miei amici dall’Italia che vogliono collaborare alle spese.
In conclusione, cosa ti senti di dire?
Vorrei dire che è un’occasione da non perdere e occorre impegnarsi per far sì che questa realtà rimanga agganciata alla nostra realtà occidentale europea, in modo che si possano condividere progetti, speranze e difficoltà. Bisognerebbe guardare al futuro per vedere che strade intraprendere per aiutare l’ospedale a crescere, in modo che sia come la luce evangelica da mettere sul moggio, in modo che gli altri vedano le opere buone e le possano seguire. L’importante è che questo ospedale non si senta isolato e quindi questa catena di solidarietà, che già è avviata, venga intensificata. Una possibile strada da percorrere in futuro potrebbe essere l’utilizzo della telemedicina, un gemellaggio tra un ospedale nostro e il loro, oppure far venire per uno stage un’infermiera o un medico qui da noi, anche se la cosa non è facile da realizzare.
Gabriella Ferretti