Di ogni cosa si possono sempre dire parole nuove. Forse anche sulla scuola si potrebbe trovare qualcosa di ancora non detto. Eppure in questo caso forse le parole più vere sono quelle che si sono sedimentate nel tempo, classe dopo classe, insegnante dopo insegnante.

“I care”: mi interessa, mi metto in mezzo

Quest’anno sembra quasi naturale andare a cercare queste riflessioni nell’opera di don Lorenzo Milani, nato un secolo fa, che ha provato a rivoluzionare la scuola mettendo al centro quello che da sempre è alla base di ogni azione educativa: l’interesse, la curiosità, all’interno di una classe in cui al posto del voto c’è la relazione. Non è retorico tornare a queste parole, ma essenziale perché quel che viene detto di qualcosa finisce per definirlo. Così, se si ripensa a ciò che si dice della scuola negli ultimi anni, appare chiara la direzione delle sue trasformazioni. Chiara e preoccupante. Si parla molto di formazione spendibile nel mercato del lavoro ma spesso questo finisce per divenire un accumulare crediti o per proporre di abbreviare a quattro anni il percorso di scuola superiore, per ottimizzare i tempi. Il rischio è creare una scuola-azienda fatta di valutazioni in cui si lascia poco spazio alla relazione e alla riflessione sulla didattica, in particolare di materie che hanno a che fare con il pensiero: storia e filosofia diventano faticosamente inutili, greco e latino squalificati in partenza. Ancor più cinico il discorso attorno al digitale spesso ridotto alla contrapposizione tra il terrore degli insegnanti di fronte a Chat Gpt e l’attitudine al multitasking delle nuove generazioni. Discorsi questi dietro i quali si pone un corpo docenti spesso non giovanissimo alle prese con una trasformazione fulminea su cui non c’è educazione ma solo osservazione esterna di una realtà virtuale nella quale i ragazzi spesso sono soli. Si parla tanto anche di reclutamento degli insegnanti. Parola presa dal lessico militare che non educa i nuovi docenti a essere tali, ma li addestra, come sotto le armi, ad affrontare un percorso a ostacoli fatto di punti in graduatoria, concorsi e crediti da integrare. E anche qui la parola relazione svanisce. Ecco allora che è essenziale riprendere le parole di don Milani e ripetere che «I care» significa « mi interessa», «mi metto in mezzo», in relazione con il mondo e con gli altri, con senso critico e curiosità. Probabilmente facendo resistenza a un mondo che va verso un’altra direzione. Proprio come accadeva nella scuola di Barbiana.

Letizia Di Deco