Oggi, mercoledì 19 luglio, dopo una malattia veloce e inesorabile, Andrea Purgatori ha lasciato questa terra: era del 1953, 70 anni come me. Atlantide, la sua trasmissione settimanale su La7 era un mio appuntamento fisso e – visto che era abbastanza lunga, il resto lo vedevo nei giorni seguenti, sulla tv via web: una delle sue creature più longeve e riuscite, marchio storico di La7 che conduceva dal 2017 e che aveva plasmato cucendoselo addosso; a dominare era non era il solito parolaio formato talk ma il giornalismo fatto per conoscere e capire.
Rigore, ricerca quasi ossessiva della verità e, al tempo stesso, un’attitudine all’ironia coltivata con raffinata strategia per tutta la vita. Erano questi i tratti distintivi di Andrea Purgatori, “giornalista e gentiluomo”, come l’ha definito poche ore dopo la sua morte il collega di rete Corrado Formigli.
Purgatori è stato autore di inchieste che hanno lasciato il segno nella storia del giornalismo italiano. Dalla strage di Ustica – uno dei “punti fermi” della sua carriera: fu grazie a lui che si è evitò l’archiviazione del caso – all’omicidio Moro passando per l’arresto di Totò Riina e il caso di Emanuela Orlandi. Sempre con un obiettivo preciso: provare a sfondare il muro di gomma delle tesi precostituite e delle mancate verità che hanno contraddistinto i grandi fatti di terrorismo, intelligence e criminalità.
“Senza presunzione, l’unico contributo che un conduttore può dare a questa idea di programma è di essere capaci di raccontare. E allora io ho messo insieme la mia esperienza giornalistica con quella di sceneggiatore cinematografico e televisivo per provare a farlo”, spiegò in un’intervista. Del resto, per Purgatori il giornalismo era il mestiere più bello del mondo: “Sei testimone della storia e hai la possibilità di raccontarla. Una professione strategica per ogni democrazia che possa dirsi compiuta”, disse appena un anno fa, ospite del Giffoni Film Festival.
Andrea Purgatori è stato il giornalista esemplare. È stato la testimonianza che si può intendere il raccontare la realtà come una sfida costante con la propria coscienza, come un dovere che ha profili etici nei confronti delle cose, degli altri, di sé stessi. Non è mai stato un complottista, un dietrologo, non ha mai usato ideologie per raccontare la realtà. Aveva le sue solide convinzioni politiche e ideali ma non le ha mai usate per distorcere la realtà, per usare l’informazione a fini di parte. La sua parte, l’unica parte alla quale ha consacrato la sua vita professionale e personale, era la realtà.
Andrea non ha smesso mai di cercare, alla ricerca della realtà. E lo faceva con una febbre che univa la sua coscienza professionale e quella civile. Gli italiani gli sono debitori: senza di lui e la battaglia dell’associazione dei familiari, Ustica sarebbe stata sepolta sotto le bugie.
Ha scritto di lui oggi sul Corriere Walter Veltroni: “Andrea era una di quelle persone che, se entrano in una stanza, vorresti non uscissero. Invece stavolta è uscito, per sempre. L’ultima volta ci siamo scritti qualcosa che tra amici, specie uomini, è difficile dirsi ma che varrà sempre: che ci volevamo bene”.
Un giornalista inflessibile, ma che voleva bene alla realtà e al suo lavoro!
Tiziano Conti