«Le grida di quella notte, delle persone che chiedevano aiuto, le sento ancora. Il volto dei sindaci che mi chiedevano come fare ce l’ho ancora davanti». È passato un mese dall’alluvione del 16 maggio in Romagna, ma il prefetto di Ravenna, Castrese de Rosa, non dimentica e con difficoltà dimenticherà quei giorni e soprattutto quelle notti nelle quali Ravenna ha rischiato di finire sott’acqua. Si è cercato di fronteggiare un fenomeno «che non era nemmeno contemplato nei piani di Protezione civile»: 23 fiumi esondati insieme, quattro miliardi di metri cubi di acqua da gestire, ma soprattutto migliaia di vite da salvare. Ci sono stati momenti, spiega con commozione in questa intervista a Risveglio/il Piccolo, «in cui, come uomo, ti accorgi di non potercela fare. In quei momenti, chi ha fede ha Qualcuno a cui rivolgersi. E io mi sono affidato: fa’ solo che i soccorsi arrivino in tempo, ho chiesto. Al resto si rimedia». Il prefetto è alla sua scrivania con davanti un plico di lettere di ringraziamento per tutti quelli che hanno contribuito ai soccorsi: Vigili del Fuoco («che da soli hanno salvato oltre 2mila persone», dice), Guardia Costiera, Aeronautica Militare, Carabinieri, Guardia di Finanza, Polizia. «Sono oltre cento – racconta -. Nessuno ha mollato, nessuno si è risparmiato». Ed è stato questo a fare la differenza, aggiunge: «Eventi di questa portata si possono fronteggiare solo se si lavora insieme. E su questo la Romagna può fare scuola. Ci si salva solo insieme».
Ci si salva solo insieme: intervista al prefetto Castrese De Rosa
Prefetto De Rosa, in quale fase siamo ora di quest’emergenza?
Siamo nella fase più delicata, quella della ricostruzione. La nomina del commissario sarà il vero snodo cruciale. Anche perché un’altra alluvione il territorio non può permettersela. Le opere di ripristino degli argini che abbiamo fatto sono opere provvisionali. Dobbiamo lavorare per gli indennizzi al 100% e per ricostruire come e meglio di prima: l’autunno è alle porte.
Qual è la situazione, in provincia, che la preoccupa di più?
La collina è distrutta. Ho visitato Brisighella, Casola Valsenio e Marradi. Ci sono oltre 200 frane attive, aziende e persone isolate. Occorre fare un gruppo di lavoro e intervenire dove serve, per priorità.
Quali le priorità?
Penso soprattutto alle strade, perché se non riportiamo una certa viabilità e funzionalità, il rischio dello spopolamento è reale: interi fronti di montagna sono venuti giù. Poi ci sono zone nelle quali non è possibile intervenire, troppo compromesse.
Qual è stata la parte della provincia più colpita?
Faenza, senza dubbio, per la vastità dell’area colpita. Oltre 20mila persone hanno dovuto lasciare le loro case, ma tra i comuni più piccoli sono stati colpiti duramente Sant’Agata sul Santerno, Lugo, Conselice. La prima fase dell’emergenza è superata. La colonna mobile regionale resterà per un’altra settimana per aiutare a pulire e a liberare le case.
Cosa ci ha salvato?
La non superficialità. Non abbiamo mai minimizzato i rischi. Il centro di coordinamento soccorsi è stato aperto il primo maggio, il giorno precedente la prima alluvione e non è stato ancora chiuso.
Quando ha percepito le dimensioni del fenomeno?
Domenica 14 maggio, quando mi chiamò il direttore della Rete di Protezione Civile regionale Rita Nicolini annunciandomi un’ “allerta ciclopica”, e prospettandomi quel che poi sarebbe successo. Era una giornata di pieno sole. Non ho voluto aspettare lunedì. Ho convocato tutti i sindaci dopo due ore in Prefettura. Ed è stato importante, perché ognuno di loro ha informato adeguatamente i cittadini. Nessuno ha minimizzato. Il messaggio era chiaro, sin da subito: evacuate le persone a rischio, senza mezzi termini. La priorità è salvare le persone. Da qui la grande macchina dei soccorsi si è messa in moto: Vigili del Fuoco, Guardia Costiera, Aeronautica militare, Carabinieri, Guardia di Finanza, Polizia. Ogni forza ha fatto affluire qui tutte le risorse di cui poteva disporre. E questo ha fatto la differenza in un fenomeno che ha avuto un solo precedente in questo secolo, l’alluvione del 1939, comunque di dimensioni inferiori.
Qual è stato il momento più difficile?
La notte del 16 maggio: sento ancora le grida delle persone che chiamavano disperate e i volti dei sindaci che mi chiedevano cosa fare. Fateli salire ai piani alti, dicevo, e arriveremo a prenderli. Se non questa notte, alle prime luci dell’alba. A un certo punto ho avuto bisogno di un momento: mi uscivano le lacrime. Pochi minuti, perché poi dovevo tornare al Centro di coordinamento soccorsi, ma mi sono affidato. Ci sono frangenti in cui ti accorgi che non ce la puoi fare. Chi ha fede, ha Qualcuno a cui rivolgersi. “Fa’ che i soccorsi arrivino in tempo – dicevo -. Al resto, si rimedia”.
È stata la prima volta?
Sì, ho dovuto gestire anche un terremoto quando mi trovavo nelle Marche, ma questa alluvione è stata molto più di un terremoto. È stata un’emergenza dopo l’altra. La notte dopo il 16 maggio ho dovuto gestire l’allagamento di Villa Maria: c’era il rischio che saltassero tutte le macchine del nosocomio, indispensabile per le cure. Abbiamo dovuto evacuare le persone di notte. Anche i giorni successivi, ogni minuto c’era qualche rottura di argini di canali o fiumi.
Ravenna ha rischiato di finire sott’acqua, come ha dichiarato. Cosa lo ha evitato?
L’allagamento dei terreni di Cab Terra ci ha dato l’opportunità di guadagnare tempo prezioso per fermare l’acqua. Ma anche l’arrivo delle idrovore ad alta velocità è stato fondamentale grazie al meccanismo europeo di Protezione civile. Per la prima volta abbiamo sperimentato la solidarietà europea a nostro vantaggio.
E i volontari?
Senza di loro non ce l’avremmo fatta. Ecco, voglio cogliere l’occasione per chiarire le mie parole. Io sono un promotore del volontariato. Il mio appello agli angeli del fango andava nel senso non di fermarli, ma di far in modo che si organizzassero. Non era mia intenzione impedire loro di venire. Mi prendo le responsabilità delle mie parole e me ne scuso.
Ci sono state scelte che avrebbe preferito non fare?
Ci siamo sempre affidati ai tecnici sulle scelte concrete. Ho dovuto anche usare procedure che normalmente non si usano. Abbiamo dovuto abbattere una casa (disabitata) a Lugo che minava i soccorsi. Ma non mi pento di niente.
In sostanza, cosa ci ha insegnato quest’alluvione? Da dove ripartire?
Ci ha insegnato che ci si salva solo insieme. E la Romagna su questo può fare scuola. Si possono fronteggiare fenomeni di questo genere solo con un moto naturale di collaborazione. Mi dispiace per le sette persone che sono morte. Potevano essere molte di più, senza questa collaborazione. Abbiamo vissuto giorni e notti insonni, ma nessuno ha mai mollato. Per questo sto scrivendo cento lettere di ringraziamento. Perché lavorare insieme ha fatto la differenza. L’abbiamo fatto nell’emergenza e occorre continuare a farlo.
Daniela Verlicchi