Il 2 giugno scorso, festa della Repubblica, sono tornata nella mia casa, in via Lapi a Faenza. Prima, fino a venti giorni fa, se dicevo che abitavo in quella strada, i più mi chiedevano: «dov’è?». Oggi è diventata famosa. Il fiume si è accanito contro di lei, come contro tutte le strade che la intersecano, più corte, per questo meno note, come contro tante altre strade di Faenza. Io l’ho lasciata prima che il fiume straripasse, ho ubbidito alle mie figlie, anche se pensavo che, andando al secondo piano, non avrei avuto problemi. I miei vicini, che hanno fatto la scelta di rimanere, hanno vissuto il terrore dell’acqua che saliva al secondo piano.

Sono tornata a vederla, più volte, quando l’acqua è discesa, con gli stivali, aggrappata ai figli per non scivolare sul fango. Non era più lei, l’acqua aveva distrutto tutto al primo piano, mobili uno sopra l’altro, elettrodomestici sollevati sopra i mobili della cucina, tutto il mio mondo di legno e di carta non c’era più e, in mezzo a tanto sfacelo, tanti impegnati a spostare, sollevare, rompere, portare fuori quell’ammasso informe di oggetti e farne cataste davanti a casa. Figli, nipoti, loro amici, sconosciuti per giorni impegnati a faticare in quella casa, in cui sembrava che l’unica fuori posto fossi io.

Per giorni non ci sono più andata. L’ho fatto il 2 giugno. Sapevo che non ci sarebbe stato nessuno e sono andata. Ho camminato in quel paesaggio “lunare”, in mezzo alla polvere, in un grande silenzio. Pochi lavoravano silenziosamente nelle loro case. Sono entrata nella mia. Come sono grandi le case, quando ci sono solo i muri! Anche le porte non ci sono più, le finestre sconnesse. È ancora lì, è la mia casa, ma non parla più. Perché le case parlano, raccontano. La loro voce non si sente, quando altre voci sono presenti, la voce del marito, le voci rumorose dei figli. Quando rimani sola, allora senti la voce delle cose, che raccontano e mantengono il ricordo di una storia cominciata tanti anni fa e ti rassicurano che, se anche con gli anni la tua memoria diminuirà, loro saranno ancora lì a raccontare.

Poi non ci sono più i libri, ordinati in cinque librerie solo al primo piano e tanti in cantina, distrutti, per lo più irriconoscibili e insieme a loro tutti i raccoglitori, tutto quel mondo di carta in cui erano i tuoi interessi, i tuoi studi, le risposte a domande che nella vita ti eri fatta, la tua storia. Anche loro parlavano, bastava aprirli, leggere. Non so se la mia casa tornerà a parlare, se potrà raccontare una nuova storia, ma so che non potrà più raccontare il passato e per noi anziani il passato è importante. So che tanti anziani soffrono più di me, perché sono soli, senza una famiglia e questo rende più difficile dare un senso alla vita che rimane. Se sapessi dove sono, andrei a trovarli. So che tanti soffrono per la perdita del lavoro, so che gran parte della mia città e della diocesi è ferita e non voglio dimenticarlo, ma oggi piango la mia casa che non parla più.

Gabriella Reggi