Non è un semplice volontariato. Dalle ore trascorse a Casa Bersana sono nati veri e propri legami di amicizia che hanno unito persone che, prima di un anno fa, vivevano a migliaia di chilometri di distanza e non parlavano la stessa lingua. Sono queste alcune delle significative testimonianze nate dall’accoglienza dei profughi ucraini a Faenza. La Diocesi ha aperto le porte di diverse sue strutture a tante persone in fuga dalla guerra, oltre 140 nel faentino. A fungere da strutture di accoglienza sono in particolare Casa Bersana, a Celle, e il monastero Santa Chiara, in centro storico. «La cosa più bella che mi porto a casa da quest’anno – racconta Gaetano Gambino, il custode della casa Bersana – è stato vedere l’affiatamento che si è creato in questa convivenza. Non bisogna mai dimenticare che ogni famiglia, che risiede qui, sta vivendo un dramma, e con l’aiuto dei volontari e degli operatori Caritas si è più forti per superarlo».
“Alcune famiglie sono qui da un anno. La ricerca di un affitto a Faenza è complicato”
Qui sono arrivate le prime famiglie fuggite dalla guerra; molte avevano alcuni parenti in zona e per questo hanno scelto Faenza. E qui sono presenti anche alcuni uomini: mariti che hanno potuto fuggire dall’Ucraina perché padri di più di tre figli o scappati prima che iniziasse il reclutamento obbligatorio. Oggi le famiglie sono alla ricerca di una propria autonomia. «Si sono dati da fare per trovare lavoro – spiega Gambino – e dopo l’estate in campagna, gli uomini oggi lavorano nell’edilizia, mentre alcune donne sono operaie. Faticano però a trovare un affitto. Anche se la convivenza nei primi mesi è stata importante per non isolarsi, oggi vorrebbero essere più indipendenti».
Nel frattempo, la rete solidale che si è creata in questo anno non è venuta meno. «Abbiamo in mente diverse iniziative per la prossima primavera – conclude Gaetano – in particolare riprenderemo alcune attività artistiche legate alla ceramica. E poi vogliamo fare diverse iniziative all’aperto, come la bella giornata vissuta l’anno scorso con l’associazione Pedalare per chi non può».
Samuele Marchi