È un piccolo gioiello questo libretto, La mia vita (San Paolo Edizioni, 2013) scritto da papa Benedetto XVI in occasione della nomina a vescovo, quarant’anni fa. Viene raccontata con gli avvenimenti principali la propria storia personale, in maniera molto sintetica all’ombra di una più drammatica storia nazionale. Il tono, asciutto e sobrio, lascia trasparire squisita sensibilità, diremo, delineando un volto più umano, vicino, diverso, dalle distaccate immagini ufficiali. E così si apprende che il giovane teologo, così promettente, rasentò un insuccesso nella carriera, quando si preparava alla libera docenza.

Michael Schmaus, famoso professore di Teologia dogmatica, che, nel dopo Concilio anche a Faenza in seminario avremmo in seguito studiato sul suo manuale, poderoso, a dir poco. Ebbene lo Schmaus bloccò con affrettata freddezza il lavoro di Ratzinger, che a sua volta, in modo geniale, focalizzò l’interesse su san Bonaventura con esito lodevole. Sfogliando le pagine autobiografiche, si vede il Joseph dell’infanzia nell’affettuoso susseguirsi di feste e di intimità famigliari. «Sono nato non la Domenica di Pasqua, il 16 aprile 1927, ma il Sabato santo. Eppure, tanto più ci penso, tanto più mi pare una caratteristica della nostra esistenza umana, che ancora attende la Pasqua, non è ancora nella luce piena, ma fiduciosa si avvia verso di essa».

La gioia del Natale si pregustava nel predisporre il presepe. «In autunno si andava a cercare nei campi il lattughino selvatico e trovavamo, sotto la guida della mamma, il muschio e rametti di abete… Sentivamo comunque che il nostro sereno mondo infantile non era affatto incastonato in un paradiso. Dietro le belle facciate si nascondeva tanta silenziosa povertà. La crisi economica aveva colpito molto seriamente… Il clima politico si faceva sempre più incandescente. Anche se non comprendevo tutti i particolari».

Più avanti scrive della tragedia bellica. «La notizia dell’allertamento della guerra gravava su di noi come un incubo e paralizzava la nostra gioia. Questa volta non poteva andare bene… Le conseguenze furono presto sotto gli occhi di tutti: passavano grandi colonne di mezzi, in parte con soldati orrendamente feriti». Anche Joseph conosce arresto e prigionia. Sfoglio il racconto sulla pagina dell’ordinazione sacerdotale. «Nel duomo di Frisinga per mano del cardinale Faulhaber, nella festa dei santi Pietro e Paolo dell’anno 1951. Eravamo più di quaranta candidati; quando venimmo chiamati, rispondemmo Adsum, sono qui. Era una splendida giornata d’estate, che resta indimenticabile… Nel momento in cui l’anziano arcivescovo impose le mani su di me, un’allodola si levò dall’altare maggiore della cattedrale e intonò un piccolo canto gioioso; per me fu come se una voce dall’alto mi dicesse: va bene così…».

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Lo stemma papale con l’orso.

Sembra proprio che il suo destino sia quello di brillante professore, per una vocazione allo studio e con preziose pubblicazioni. Ma l’uomo propone e Dio dispone. Un giorno arriva con fare sornione il nunzio apostolico che intrattiene il professor Ratzinger con un pretesto, chiacchierando del più e del meno. Al termine lascia una lettera. Era la nomina di Ratzinger ad arcivescovo a Monaco e Frisinga. Eh no, vescovo no!» si sfoga con l’amico collega di insegnamento, il quale invece di assecondarlo, con sorpresa dice: «Devi accettare».
E finalmente arrivano l’orso e il mulo. Narra la storia che a san Corbiniano, il fondatore della diocesi di Frisinga, un orso aveva sbranato il mulo del santo, che stava recandosi a Roma. Corbiniano lo rimproverò aspramente per quel misfatto e, come punizione, gli carico’ sulle spalle il fardello che fino a quel momento era stato portato dal giumento. L’orso dovette portare quel fardello fino a Roma e solo qui il santo lo lasciò libero di andarsene. «L’orso che portava il carico del santo – prosegue Ratzinger – mi ricorda una delle meditazioni sui salmi, di sant’Agostino. Nel salmo 72 Agostino vedeva espressi il peso e la speranza della sua vita… Mi è parso rappresentare il mio destino personale… Il salmo mostra la situazione di bisogno e di sofferenza che è propria della fede e che deriva dall’insuccesso umano; chi sta dalla parte di Dio non sta necessariamente dalla parte del successo: i cinici sono spesso persone che la fortuna pare viziare… Agostino aveva scelto la vita dell’uomo di studio e Dio lo aveva destinato a fare l’animale da tiro, il bravo bue che tira il carro di Dio in questo mondo. Quante volte è insorto contro tutte le inezie che si trovava caricate addosso e che gli impedivano il grande lavoro che sentiva come la sua vocazione più profonda.

Ma proprio qui il salmo lo aiuta a uscire da tutta l’amarezza: «Sì ,è vero, sono divenuto un animale da tiro, una bestia da soma, un bue, ma proprio in questo modo io ti sono vicino, ti servo, tu mi hai nella mano. Come un animale da tiro è il più vicino al contadino e compie per lui il suo lavoro, così anch’egli, proprio in questo umile servizio, è vicinissimo a Dio… Che cosa potrei raccontare di più e di più preciso sui miei anni come vescovo? Di Corbiniano si racconta che a Roma restituì la libertà all’orso. Se questo se ne sia andato in Abruzzo o abbia fatto ritorno sulle Alpi, alla leggenda non interessa. Intanto io ho portato il mio bagaglio a Roma e ormai da diversi anni cammino con il mio carico per le strade della Città eterna. Quando sarò lasciato libero, non lo so, ma so che anche per me vale: sono divenuto la tua bestia da soma, e proprio così io sono vicino a Te». Mai l’orso mansueto non immaginava cosa l’attendeva.

Dante Albonetti