Si può non parlare di morte, fare come se non ci fosse. Ma si perde un bel po’ di “vita”, e molto del suo senso. È uno dei messaggi dell’ultima fatica teatrale di Giacomo Poretti, autore e protagonista, assieme alla moglie Daniela Cristofori, dello spettacolo Funeral home andato in scena al teatro Alighieri di Ravenna da giovedì 24 a domenica 27 novembre nell’ambito della stagione dei Teatri. Un tema scomodo quello che Poretti porta sul palco, che mediamente facciamo finta di non vedere, nonostante da due anni sia sulle pagine di giornali e tv, a causa dell’epidemia Covid. Lo fa anche il protagonista, Ambrogio, diretto, assieme alla moglie Rita, al funerale di un conoscente e intento a sfuggire in tutti i modi da questa realtà, in un esilarante tiro alla fune con la moglie che invece vuole riportacelo. Dopo “Fare un’anima” di alcuni anni fa, l’attore del famoso Trio comico con Aldo e Giovanni punta ancora sul teatro, «il luogo privilegiato per raccontare storie» per parlare al cuore dell’uomo: temi grandi, affrontati con il sorriso. Uno stile, un dono, per lui. Come spiega al nostro settimanale.

Intervista a Giacomo Poretti

Poretti, prima volta a Ravenna? La conosce?

Sono venuto prima del Covid per lo spettacolo Fare un’anima: il teatro lo conosco bene, ed è straordinario. La città la conosco meno perché quando sono venuto dovevo scrivere e non l’ho praticamente visitata. Ci sarà occasione, spero, di vedere i vostri mosaici questa volta.

Parlare di morte su un palco: perché? E soprattutto come?

I comici hanno sempre considerato questo tema come il loro. Scherzare, dileggiare, sfidare, guardare negli occhi la morte è una cosa che facciamo. E credo che la comicità possa chiedere di più, può avventurarsi più in là. Poi, gli avvenimenti degli ultimi due anni ci hanno fatto pensare. Non ci sono riferimenti al Covid nello spettacolo: è una riflessione poetica e comica sul mondo degli anziani e sulla morte.

Com’è cambiata la nostra idea di morte in questi due anni di pandemia? In qualche modo, ci è venuta addosso?

In realtà, la morte ci viene sempre “addosso”. Certo la tv, il bollettino quotidiano delle vittime, le persone care che abbiamo perso, l’hanno messa al centro. Ma penso che sia cambiato poco. In una società in cui trionfa il corpo perfetto, ben vestito, scolpito, il tema della “finitudine” viene messo da parte. Ma è stupido non occuparsene: significa non capire il significato e il senso che c’è.

Quanto c’è della vita e della storia di Poretti in Ambrogio, il protagonista?

Molto, anzitutto perché si comincia a invecchiare. C’è il lavoro che ho fatto come infermiere, l’immagine degli anziani delle Rsa degli ultimi anni. Un corpo che decade non trova posto nei discorsi pubblici e non è sempre stato così. L’anziano era un riferimento, ora si sta perdendo il senso di tutto questo. In una società così il rischio è quello di perdere l’esperienza anche corporea, del tempo che passa. Ormai ci tocca andare a digitare su Wikipedia per capire “cosa significa essere anziano”.

Prima l’anima, ora la morte, non è che sta diventando un po’ troppo serio?

Me lo deve dire lei. Io vedo che il pubblico apprezza, vuole interrogarsi su questo tema che cerchiamo di affrontare poeticamente. Non si è mai contenti di parlarne, ma c’è una possibilità di entrarci con tenerezza, nostalgia, delicatezza. È attraverso questi sentimenti che diventiamo umani, affrontando questi temi. Altrimenti, ci si instupidisce.

Come si riesce ad affrontare temi così con il sorriso?

È un po’ come chiedere a un artista cosa voleva dire col quadro. Io dico, guarda il quadro. Scherzi a parte, penso siano talenti. Nel mio caso non è un merito, è un dono. Non so spiegare come né perché, sento di aver ricevuto questo regalo: la capacità di dire cose serie con il sorriso. Siamo tutti pellegrini della vita, ognuno la racconta come sa. Lo faccio anche perché fare questo mi consente di dire ciò che penso.

Sul teatro lei ha investito anche personalmente con l’Oscar di Milano, nato come teatro parrocchiale, di cui è direttore artistico. È un buon investimento?

Dal punto di vista culturale e umano è uno degli investimenti più importanti della mia vita. Dal punto di vista economico per adesso no: il teatro soffre, magari non come il cinema, ma soffre molto. Ne vale la pena perché per degli appassionati dell’umano e delle sue vicende come me, Gabriele (Allevi, ndr) e Luca (Doninelli, ndr) è un luogo privilegiato per raccontare storie. Abbiamo proposto “Grate”, sulla vita di un convento di suore clarisse di clausura raccontato da uno scrittore laico che pensava di trovarci una prigione e invece ha incontrato uno sguardo sulla città mai vista. Poi abbiamo inventato i “Versus” perché, secondo noi, Milano non è una cosa sola, ma almeno sempre due, e allora abbiamo “Inter vs Milan”, “Pirellone vs Torre Velasca”, “Fo vs Testori” etc…

Lei ha incontrato papa Francesco. Si è mai chiesto perché chiede sempre di pregare per lui?

Sì, l’ho incontrato, ma gli ho stretto solo la mano. Tutti lo dovremmo chiedere, soprattutto quando facciamo un lavoro per gli altri: è un gesto di umiltà. Lo faccio anch’io.

Daniela Verlicchi