Il mare risale lungo il grande fiume. L’acqua dolce – usata per dissetare le persone, gli animali e le coltivazioni – diventa salata, inutilizzabile. Quasi un’immagine che sa di apocalisse. Ma che ha ben precise cause materiali e che si ripete da sempre quando la siccità imperversa come accade in queste settimane. Quello dell’insinuarsi del cuneo salino lungo il Po è uno degli effetti della scarsità d’acqua che sta minando le rese dell’agricoltura e che aggrava i problemi collegati alla mancanza di materie prime alimentari di cui l’Italia, ma soprattutto altri Paesi, sta soffrendo. Il fenomeno della risalita del cuneo salino dal mare al fiume è dovuto alla diminuzione della portata di acqua dolce da monte che, soprattutto quando c’è alta marea, non riesce a “farsi strada” in mare le cui acque addirittura penetrano nel fiume risalendolo anche per molti chilometri.
E’ quanto accade in questi giorni con sempre maggiore intensità: le ultime rilevazioni indicano in una fascia di circa 30 chilometri verso l’interno la zona nella quale al posto di acqua dolce si trova quella salata. L’Associazione nazionale dei consorzi di irrigazione e bonifica (Anbi), ha già lanciato l’allarme: in pericolo ci sono non solo le coltivazioni lungo l’asta del fiume stesso, ma anche le falde e, adesso, soprattutto quelle che alimentano di acqua potabile la città di Ferrara. Un pericolo grave, per fronteggiare il quale si sta pensando di usare le acque del lago di Garda per rimpinguare quelle del Po e fare da barriera al sale. Emergenza, comunque, contro la quale proprio l’Anbi chiede una normativa specifica «a tutela – viene spiegato in una nota – dei territori del delta del fiume Po che, dopo i danni della subsidenza innescata dalle trivellazioni in Alto Adriatico, si trovano ora a fronteggiare la risalita del cuneo salino. Serve un approccio, che superi la logica dello stato di calamità e degli interventi in emergenza». Già, l’emergenza. Qualcosa dovuto – viene detto ormai da tutti i protagonisti – alla scarsa capacità e volontà programmatoria di cui soffre l’Italia. Disattenzione politica piuttosto che uso diverso di fondi che in realtà (seppur in modo contenuto), vi sarebbero anche. E che ha come conseguenza la pochezza degli invasi di conservazione dell’acqua soprattutto al nord della Penisola. Proprio quegli invasi che, se vi fossero, consentirebbero adesso di stare un po’ meglio alle città, ai campi e alle stalle della vasta pianura Padana. Per questo, oltre a far fronte alla sete di oggi, Coldiretti, Confagricoltura e Cia-Agricoltori Italiani, così come Wwf, imprese dell’acqua e idroelettriche, enti locali, tutti insomma, chiedono a gran voce un “piano” di investimenti che prevenga altre future grandi seti.
Intanto, quella che alcuni hanno definito la “tempesta perfetta” continua a produrre i suoi effetti. Coldiretti ha già stimato in circa tre miliardi i danni provocati dalla siccità. Più in generale, la mancanza d’acqua sta acuendo l’aumento dei costi delle materie prime e la scarsità oggettiva di alcune di esse. L’Italia ne ha sofferto e ne soffre, ma molto di più ne hanno patito altri Paesi. In questo caso, non si tratta di agenti naturali, ma di cause spiccatamente umane. La guerra Russia-Ucraina ha bloccato le esportazioni di grano da uno dei grandi produttori mondiali: un fermo che in pochi giorni ha fatto impazzire i mercati e rischiato di affamare interi stati. Per questo l’accordo probabile sullo sblocco dei porti annunciato dal ministro della Difesa turco Hulusi Akar è stato accolto con soddisfazione generale e dovrebbe consentire all’Ucraina di tornare a esportare il 95% del grano via mare e svuotare i magazzini dove si stima la presenza di oltre 20 milioni di tonnellate di cereali destinati a rifornire sia nei Paesi ricchi che in quelli più poveri. Ma non è certo con mosse d’emergenza che si possono risolvere questi grandi problemi. Il tema è più vasto e complesso: è necessario un approccio nuovo, più umano alle grandi controversie che stanno soffocando il mondo.
Andrea Zaghi