Grazie, don Romano! Conosco molti sacerdoti, ma non avevo mai incontrato don Romano. Lo conoscevo di vista, come fratello di don Antonio, come parroco di Sarna, ma niente di più. E non avevo messo in programma di andare come volontaria alla Casa del Clero, impegnata già con altri gruppi di anziani. Poi nell’agosto di sei anni fa una telefonata di Danilo: «sono entrati i primi due ospiti, don Romano e don Elio. Hanno patologie importanti. Perché non vieni a trovarli?». Andai.
Mi accompagnò da don Romano e cominciò a dirgli che ero una dottoressa, una volontaria…
Don Romano mi guardava, parlava già poco, ma il suo sguardo sembrava dire: Ma chi è, cosa vuole questa da me? Ero a disagio, poi mi venne in mente di dire: «Sono la moglie di Giglio!». Nominare mio marito, un suo antico compagno di Seminario, cambiò il suo sguardo e sorrise. La comunicazione ora era possibile, ero accettata.
Così incominciammo a guardare gli album di foto: quelle del seminario, poi dell’ordinazione, della prima Messa. Don Romano spesso non trovava le parole per esprimere il suo pensiero, ma parlava con lo sguardo e coi gesti, mi faceva capire quali seminaristi erano stati solo compagni, quali amici, quali anche complici in qualche “birichinata”. Quando non riuscivamo proprio a dare un nome a dei volti, ricorrevamo alla memoria di don Elio.

Conobbi così la storia di don Romano dagli album di foto, la sua vita di parroco nelle varie parrocchie: Monte Romano, Glorie, Sarna. Le foto mostravano Battesimi, Prime Comunioni, Cresime, gite coi ragazzi o con adulti, pellegrinaggi in Terra Santa, pranzi, incontri con sacerdoti… nessun evento eccezionale. Era la vita semplice di un parroco, che amava stare con la gente, amava la campagna (quante foto di Sarna!) ed era un appassionato ed esperto raccoglitore di funghi.
La campagna gli mancava. Seduti su una panchina, guardava le chiome degli alberi oltre le mura di santa Teresa e diceva: «Andiamo a vedere se ci sono dei funghi!». Non gli mancava solo la campagna.
Un giorno gli chiesi cosa voleva fare: una passeggiata in cortile, ascoltare la musica, guardare la Tv. Mi rispose: «Fare il prete!».
Gli piaceva guardare e riguardare le foto del suo ministero, tutte le coppie che aveva sposato, di cui non ricordava più il nome e mi dispiaceva di non riuscire ad aiutarlo, ma non conoscevo il suo mondo. Don Romano ha poi accettato serenamente le progressive restrizioni che la malattia e le regole della struttura gli hanno imposto, la carrozzina, la cintura di protezione, fino alla totale dipendenza dagli altri.

Era contento di stare con gli altri sacerdoti a Messa, a pranzo, di condividere la vita della Casa, di andare in cortile coi volontari, di uscire la domenica con amici, dovunque qualcuno lo portasse. Poi è arrivato il Covid, che ha stravolto tutto. Le uscite sono rimaste solo quelle delle visite ospedaliere e per tanti periodi è stato costretto nella sua stanza. Appena era possibile, continuava a condividere con gli altri sacerdoti il pranzo e, quando era alzato, la Messa. Negli ultimi mesi, quando l’andavamo a prendere per portarlo a Messa, spesso lo trovavamo addormentato. Lo portavamo giù lo stesso, meglio dormire accanto al Signore, pensavo, che solo nella sua stanza. Poi spesso si svegliava e riceveva la Comunione, un piccolo pezzo d’ostia. Era bello vedere che ce la faceva ancora. Lo mettevamo proprio vicino al tabernacolo e all’altare, perché così la sua carrozzina non ingombrava il passaggio; ma, quando lo ripenso lì, con la sua stola sulle spalle, penso che fosse il posto giusto per lui, che veramente, nella sua estrema fragilità, fosse il primo concelebrante, che abbia continuato a “fare il prete” sempre, come desiderava. Grazie don Romano! Grazie per tutto quello che in questi anni ci hai detto, pur senza parlare.

Gabriella Reggi

Noi, volontari della casa del Clero, andando la mattina al primo piano per preparare i  sacerdoti lì ricoverati per la partecipazione alla Santa Messa, lanciavamo sempre uno sguardo dentro la stanza di don Romano per vedere se era a letto e quindi impossibilitato a partecipare oppure era seduto sulla sedia a rotelle e quindi trasportabile fino alla chiesa, al piano terra. Nonostante la malattia degenerativa che ti aveva colpito, caro don Romano, cercavamo di dirti qualcosa, di parlarti, di farti domande mentre ti facevamo indossare la cotta e, di recente, la semplice stola.

Nella tua immobile presenza sembrava che tu ci ascoltassi almeno un poco e qualche volta, a domanda diretta, pareva che tu accennassi a un sì o a un no.

Ti si parlava come se ti conoscessimo da tempo e questo era vero anche se solo in parte, perchè sapevamo della tua vita, delle parrocchie dove eri stato, delle tue passioni per le passeggiate, per i funghi, della tua facilità a vivere momenti comuni in allegria. Certe fotografie  mostrano il tuo viso allegro e sereno e da esso promana uno spirito semplice e positivo, capace di apprezzare le gioie della vita ma sempre in una dimensione di amicizia  con i parrocchiani e con chiunque tu incontravi. Quella tua minima apparente partecipazione sembrava palesarsi quando il vescovo Stagni metteva sulle tue labbra un piccolo frammento di ostia consacrata e noi ti aiutavamo facendoti bere un po’ d’acqua; mentre il vescovo ti incoraggiava “Don Romano , coraggio, manda giù, è il Signore” pareva che tu obbedissi e fossi presente con una minima apparente partecipazione. Chissà quali frammenti e barlumi di ricordi o memorie minime attraversavano la tua mente.

Ora, caro don Romano, la porta della tua stanza è chiusa e la targhetta col tuo nome è stata subito rimossa e quando si va su al primo piano ci manca  quello sguardo che si gettava dentro la stanza. Gli ultimi tempi eri costretto sempre a letto, assopito, col sondino nasogastrico, in una lenta e progressiva consunzione. Ti salutiamo, don Romano, e siamo sicuri che quel Signore che assumevi in piccoli frammenti ti abbia accolto nella Sua pienezza e totalità.

                                                                                                                      Angelo Gambi