«Mi è capitato di soccorrere dei naufraghi in stato di ipotermia, un ragazzo, a cui era stata data la coperta termica, se l’è sfilata per porgerla a un altro migrante più in difficoltà, anche se i due non si conoscevano». A raccontare questo barlume d’umanità in mezzo al dramma del Mediterraneo è il faentino Tommaso Ambrosini, 27 anni. Psicologo e psicotraumatologo della cooperativa Teranga, per 21 giorni, a maggio dell’anno scorso, è stato su una nave accoglienza al largo della Sicilia e in piena pandemia.
Qui, come volontario, prestava soccorso psicologico ai migranti, di fatto era una della prime persone con cui loro si interfacciavano in maniera approfondita dopo un viaggio drammatico. Le persone che tentano di arrivare in Italia dal Nord Africa, quando vengono individuate, sono soccorse dal porto più vicino, ma in acque internazionali c’è spesso un rimbalzo di responsabilità. Per questo molte volte intervengono le Ong a salvare i migranti dal mare.
Le persone vengono poi portate in punti di raccolta. La gran parte dei migranti in arrivo dal Mediterraneo stanziano due settimane sugli hotspot galleggianti del Governo, navi traghetto con 2mila posti l’una, dove ricevono lo screening sanitario e completano la quarantena Covid-19, dopodiché vengono suddivisi in tutta Italia nei centri d’accoglienza.
L’esperienza sulla nave accoglienza
«Sono andato in missione con la Croce Rossa sulla nave accoglienza Excellent del Ministero degli interni – racconta Tommaso -. Ho parlato con molti migranti. Le persone che cercano di arrivare in Italia non capiscono cosa stia succedendo, sono reduci da torture e abusi. Questo fa sì che vogliano trovare un posto sicuro il prima possibile».
Durante i 21 giorni di permanenza sulla nave accoglienza, Tommaso ha fatto 1.500 screening, ossia una valutazione preliminare di diversi minuti con la persona migrante per capire il suo stato di salute psico-fisica. In tutto sono stati 250 i colloqui di supporto psicologico successivi. «Sono stato lì solo tre settimane, per via del sovraccarico di lavoro molto alto: 20 ore al giorno di lavoro e con un alto rischio di ammalarsi dovuto alla pandemia, circa un quarto del personale sanitario si è ammalato». A bordo della nave erano presenti ben venti mediatori culturali per aiutare il personale a tradurre le svariate lingue dei migranti. «Nonostante la presenza dei mediatori – specifica Tommaso – alcuni dialetti erano talmente specifici da non riuscire a essere tradotti». In questo contesto, non sono mancati momenti critici.
«È capitato sull’hotspot di dover requisire qualche coltello – racconta -. C’è stata anche una rivolta interna su un ponte della nave, le persone erano stanche della permanenza e volevano scendere a terra. Ma a fronte di questi momenti difficili, ci sono anche esperienze arricchenti che ti danno fiducia nell’uomo». Come le ore trascorse giocando con Yaya, un bambino appena arrivato a cui è riuscito a regalare tanti sorrisi.
Prima di prendere il largo: le carceri libiche
«La criticità delle carceri libiche, finanziate dall’Ue che le chiama “centri di contenimento”, sono una delle più grandi ipocrisie commesse dall’Europa. Sono gestite da bande armate senza nessun interesse umanitario che mirano a incassare denaro sfruttando, oltretutto, i fondi europei. L’altro metodo attraverso cui ricevono soldi è l’estorsione tramite tortura dei migranti». Le persone, dopo il loro arrivo in questi centri, ci restano diversi mesi in attesa di partire. Nel frattempo vengono derubate, torturate e a volte filmate.
Il video viene inviato ai familiari per estorcere denaro. «Quando questi criminali libici ritengono di aver preso tutto dai familiari o non gli serve più questa persona – spiega -. La fanno partire, e questo è sistematico per una grande maggioranza di persone con cui mi sono interfacciato. Quasi tutte le donne che passano dai campi libici subiscono violenze sessuali. A volte l’etnia delle persone conta nella brutalità delle torture, ad esempio i somali vengono presi di mira per il legame stretto che hanno con le loro famiglie. Questo fa sì che vengano torturati più duramente. Inoltre, al contrario di quello che appare, c’è un numero enorme di immigrati dall’Asia, un buon 50% di persone erano pakistani, kazaki, afghani».
Oggi l’emergenza afghana
Anche se ancora oggi questi fatti accadono a pochi chilometri dalle nostre coste per Tommaso c’è ancora speranza. «Questa esperienza è stata molto forte, utilizzerei il termine “svuotante”. Entri in contatto con una delle massime forme di malvagità, vedi segni e storie di esseri umani passati in dei lager a cielo aperto. Durante il periodo sull’hotspot il tempo si dilata, mi sembra di essere stato lì due o tre mesi perché oltre al carico psicofisico intenso condividi momenti con persone che fuggono dalla guerra, dalle carestie, dalla malattia nel corso della rotta migratoria. L’esperienza fatta è stata tanto estenuante quanto arricchente. Consiglio a tutti di provare esperienze di servizio simili, ognuno mettendo in campo la propria competenza, ma va fatto con totale sicurezza».
Oggi Tommaso è impiegato come psicologo presso Teranga, una cooperativa che gestisce centri di accoglienza straordinario (Cas). Il più grande è a Faenza e si occupa di una trentina di persone. Tra questi, anche alcuni afgani con traumi per la guerra stanno aspettando un mediatore. Per cercare di intrecciare i vissuti anziché spezzarli.
Francesco Garavini