Ci sono due parole che spiegano il discorso di Renzi alle Leopolda, piuttosto fragile e non all’altezza delle aspettative. La prima parola è “Italia”. Ed è quello che manca: il paese reale e il Covid, ovvero il segno di un’epoca. Le sue ansie, paure, aspettative, la sua struttura materiale che sta cambiando, il PIL e i sentimenti collettivi, i nuovi conflitti. Zero di tutto ciò. La seconda parola è “Rancore”, sentimento che, anch’esso, definisce il primato del passato, come una prigione solitaria, tu con pochi intimi lì dentro e tutto il mondo fuori, alla “Siamo solo noi” di Vasco. È come se l’orologio politico del renzismo fosse sempre fermo a una stagione precedente in cui i “prodigi” di Renzi sono stati incompresi e avversati, all’idea di chi si deve sentire capo, a prescindere, e preferisce perdere comandando da solo che vincere in una squadra.
Il paese, e pure la politica, nel frattempo ha voltato pagina, rispetto alla rappresentazione, un po’ di comodo, dei grillini che sono quelli dei “no vax” e dei gilet gialli, di un PD subalterno, e dell’avvocato del popolo a cui vengono riservati una quantità di colpi fuori da ogni misura. Insomma, per Renzi, c’è una destra a trazione sovranista, e questo è vero, e un centrosinistra, cui dedica tutto il discorso, a trazione grillina, col PD che ha “tradito” il riformismo, distruggendo la “casa” da cui si era partiti e pure il governo più bello del mondo, quella della buona scuola e del Jobs act.
Ci risiamo con l’ossessione: colpa di D’Alema, di Bersani, della Ditta, di “Enrico stai sereno”, colpa di tutti tranne che di un capo che continua a compiacersi del culto della personalità di chi è rimasto, per cui ogni intervento dal palco è un “Meno male che Matteo c’è”. C’è qualcosa che attiene più a Freud che alla politica, in questa ossessiva ricerca dei nemici, proprio ora che Renzi si sarebbe potuto presentare come un vincitore e anche un tessitore di una nuova trama: ha portato Draghi a palazzo Chigi, adesso attorno al governo Draghi si sono aperte le contraddizioni nei partiti proprio in virtù di questa operazione, lo schema di governo degli ultimi tre anni è saltato.
Tutto questo comizio anni ‘50 serve a sancire l’addio al PD, che in fondo era nelle cose e non provoca da quelle parti grandi pianti o tormenti esistenziali. Ma anche una fuoriuscita dal campo del centrosinistra.
Se ritieni che il pericolo per il paese sia una destra che prefigura Orban in Italia, stai dall’altra parte (non fece nascere proprio Renzi il Conte 2 in nome di questo pericolo?) e ti batti perché la coalizione abbia un tasso di riformismo. Se invece dici che da un lato ci sono i pericolosi sovranisti, dall’altro i pericolosi grillini, stai cercando uno spazio per te, e per il tuo futuro, sognando di fare, a partire dal Quirinale, il nuovo Ghino di tacco, ruolo nel quale si rischia sempre di trovare qualcuno che sa picchiare di più.
La verità è che il macronismo in versione renziana è già fallito: il presupposto della scissione di Italia Viva era ridimensionare il PD come Macron ha ridotto il PS francese, cioè ininfluente. Due anni dopo Renzi è al due per cento e il PD è il primo partito italiano, nei sondaggi di Enrico Mentana.
Insomma, il progetto non c’è. C’è un leader che si tiene le mani libere: in fondo è quel che ha sempre fatto, poi ci ha costruito una teoria sopra. Forse è ora di percorrere un’altra strada nel nostro paese: quella della responsabilità, quella che De Gasperi evocava quando chiedeva di guardare “alle prossime generazioni”.
Tiziano Conti