Oggi Tarcisio Burgnich ha iniziato la sua partita nelle sterminate praterie del cielo, dove ricomporrà la mitica difesa dell’Inter, insieme a Giuliano Sarti, Giacinto Facchetti e Armando Picchi. In carriera ha segnato 5 goal in Serie A e 2 in Nazionale. Ovviamente il più bello di tutti, quello che ci resterà sempre nel cuore, è il goal alla Germania Ovest nella “partita del secolo” all’Azteca di Città del Messico il 17 giugno 1970, semifinale dei Campionati del mondo di calcio. A quel punto, dopo aver subito il pareggio a tempo scaduto e aver iniziato i supplementari con una papera tra Albertosi e Poletti che ci costò il secondo goal, nessuno avrebbe scommesso un soldo sulla nostra capacità di riprenderci, soprattutto sotto il profilo psicologico. Il suo pareggio, sul 2 a 2, diede coraggio ed energie morali alla nostra Italia e di lì in poi fu un susseguirsi di colpi di scena e di forti emozioni, fino alla rete finale di Rivera che chiuse la partita sul 4 a 3 per noi.

Che ricordi, quella notte: resterà sempre nel mio cuore, soprattutto perché mi rammenta un momento pieno di affetto con mio padre, davanti alla televisione fino a oltre le due di notte.

C’era una volta, un calcio fatto di buoni sentimenti, di numeri sulle maglie che raccontavano gli uomini prima ancora dei ruoli. Le formazioni erano quasi sempre le stesse e certi incipit restano memorabili: Sarti, Burgnich, Facchetti…Tarcisio Burgnich era il terzino destro, il numero 2, di quella squadra, passata alla leggenda come la Grande Inter, con presidente Angelo Moratti e in panchina Helenio Herrera, soprannominato “il Mago”. L’incontro con l’allenatore, personaggio che lui adorava e che gli spalancò le porte del mondo: “Stare con lui era come essere su un’astronave. Era sempre un passo avanti. Uomo sobrio, serio, era stato povero, ci esortava a non buttare via i soldi che guadagniavamo, ci insegnò a fare yoga per concentrarci”.

Sarti era il portiere elegante, l’aquila solitaria, Facchetti, il terzino sinistro goleador, rappresentava la bellezza e la classe, e poi c’era lui: il difensore coriaceo, quello che si attaccava all’ala sinistra, il numero 11, e non la mollava mai. Armando Picchi, libero dai piedi buoni di quella formazione indimenticabile, definì Burgnich “Roccia”: era impossibile superarlo, possedeva una forza titanica e un carattere d’acciaio.

Giocò nell’Udinese, nella Juventus, nel Palermo e, dopo le vittorie nerazzurrre, disputò tre stagioni al Napoli, provandosi, con successo, come libero. Friulano di poche (ma sincere) parole, come Zoff e Bearzot che lasceranno come lui un segno indelebile nella nazionale italiana, Burgnich si esprimeva in maniera esemplare sul prato verde: una sicurezza, un punto di riferimento, un gladiatore.

Un giocatore corretto, stimato e rispettato da compagni e avversari: un calciatore d’altri tempi, di quelli che incarnavano il calcio come scuola di vita, di cui oggi si sono perse un po’ le tracce.

Tiziano Conti