Anche quella mattina del 21 settembre 1990, la dorata estate siciliana indugiava senza fretta. Doveva pur sempre colorare quel tesoro di arte e storia che è la valle dei Templi, all’orizzonte per chi arriva ad Agrigento da Canicattì. Il viadotto Gaslena lungo la statale 640, Caltanissetta-Agrigento, è percorsa da una modesta utilitaria. Alcuni spari infrangono vetri e incantesimi. Un agguato mescola il rosso sangue con la rossa vernice dell’auto. Muore il “giudice ragazzino”, mentre senza scorta si recava, come sempre, al Tribunale di Agrigento. I componenti del commando omicida di Rosario Livatino, con i mandanti, ora in carcere, firmano il martirio di un santo. Come in una moderna passione di Cristo, mormora ai carnefici: «Picciotti, cosa vi ho fatto?». Qualcuno, pentito, si è reso prezioso, con la sua testimonianza, passata agli atti del processo di beatificazione. Nato a Canicattì il 3 ottobre 1952, Rosario si era laureato a Palermo con il massimo dei voti in Giurisprudenza. Cresciuto nella fede cristiana, al

Dal 1979 al 1989 aveva seguito le più delicate indagini antimafia

Tribunale di Agrigento dal 1979 all’89 si occupò delle più delicate indagini antimafia, ma anche della cosiddetta tangentopoli siciliana. Dall’89 diventa giudice a latere. Nella preziosa agenda del 1978, al 18 luglio, resta immortalata un’invocazione sulla sua professione di magistrato che suona come una consacrazione di vita: «Oggi ho prestato giuramento: da oggi sono in magistratura. Che Iddio mi accompagni e mi aiuti a rispettare il giuramento e a comportarmi nel modo che l’educazione che i miei genitori mi hanno impartito, esige». Fede e Diritto, spiegò nel 1986 a Canicattì, sono due realtà «continuamente interdipendenti fra loro, in reciproco contatto, quotidianamente sottoposte a un confronto, a volte armonioso, a volte lacerante, ma sempre vitale, sempre indispensabile… Gesù afferma che la giustizia è necessaria, ma non sufficiente e può e deve essere superata dalla legge della carità, che è la legge dell’amore verso il prossimo e verso Dio, ma verso il prossimo in quanto è immagine di Dio, quindi in modo non riducibile alla mera solidarietà umana». Il suo vescovo lo descrive con questo encomio: «Impegnato nell’Azione Cattolica, assiduo all’Eucarestia domenicale, discepolo fedele del Crocifisso».

Ogni mattina, prima di entrare in Tribunale, si recava a pregare nella vicina chiesa di San Giuseppe.

«Quando moriremo, nessuno ci verrà a chiedere quanto siamo stati credenti, ma credibili».

Domenica 9 maggio la beatificazione, 28 anni dopo le parole di Giovanni Paolo II contro la mafia

Il 9 maggio non è una data casuale. Proprio quel giorno, nel 1993, a tre anni dall’assassinio di Levatino, papa Giovanni Paolo II, in visita ad Agrigento, lasciando da parte i fogli ufficiali, improvvisò un grido di invettiva, rimasto celebre, contro la mafia. Poco prima, commosso, aveva stretto la mano ai genitori di Livatino.

L’omelia sembrava un mare calmo anche se grandioso, che nulla lasciava trasparire dell’imminente uragano delle parole al termine della Messa: «Una celebrazione sullo sfondo dei templi: templi provenienti dal periodo greco, che esprimono questa grande cultura, questa grande arte e anche questa religiosità, i templi che sono testimoni oggi della nostra Celebrazione eucaristica. E uno ha anche nome di ‘Concordia’ ecco, sia questo nome emblematico, sia profetico. Che sia concordia in questa vostra terra. Concordia senza morti, senza assassinati, senza paure, senza minacce, senza vittime… E questi che sono i colpevoli di disturbare questa pace, questi che portano sulle loro coscienze tante vittime umane, devono capire, devono capire, che non si permette di uccidere innocenti! Dio ha detto una volta: “Non uccidere”: non può uomo, qualsiasi umana agglomerazione, mafia, non può cambiare e calpestare questo diritto santissimo di Dio...Nel nome di questo Cristo…lo dico ai responsabili: Convertitevi! Una volta verrà il giudizio di Dio!».

Papa Benedetto XVI, a Palermo, volle il 3 ottobre 2011 rinnovare il grido: «Mafie, strada di morte, incompatibile con il Vangelo». Rosario Livatino aveva rifiutato di essere protetto dalla scorta. Si scherniva nella sua umanissima fede. «Almeno, senza la scorta, ne muore solo uno». Così è stato.

Dante Albonetti