Dopo la messa in cui si sono ricordati i caduti alla presenza della sindaca e di buona parte della Giunta, la banda cittadina ha introdotto il corteo del 25 aprile davanti al Municipio. Sul sagrato della chiesa arcipretale Ines accenna a qualche ricordo legato al tempo della guerra e della Liberazione.

Nata nel 1939, abitava dalle parti di San Giacomo. Ottant’anni fa, in località “Pont di Berbar” (ponte dei Berberi, subito oltre il sottopasso ferroviario) vide passare i tedeschi in fuga, e poco dopo vide gli alleati che li inseguivano. Tanti i ricordi di quei giorni.

Si tratta di una serie di fatti che coinvolsero una bambina che in quel tempo iniziava la sua vita. Tanto doveva imparare, ma tanto si trovò a vedere e vivere in prima persona. Gli spari e i fori dei proiettili nei muri di casa. I bombardamenti e i passaggi delle colonne motorizzate.

Ma Ines non è solo ricordi. Ines guarda attonita i racconti dai fronti delle guerre di oggi trasmessi alla tv. “Sento che devo guardarci!”. Con papa Francesco spera nella pace, e non nasconde il disappunto per i potenti che osano acconsentire all’idea che la pace in Ucraina debba significare cedere terra all’invasore.

Ines, che frequentò la scuola fino alla V elementare, ha letto, legge e rilegge storia e storie delle due grandi guerre mondiali. Condivide con papa Francesco che in guerra non ci sono vincitori. Preoccupata, dice: “cosa lasciamo ai nostri bambini? … Quanto saremmo signori? Dopo essere arrivati in cima alla montagna, stiamo scendendo …”.

Ines Minardi a inizio guerra viveva vicino al fiume Lamone, fra la ferrovia e villa Spadina (di cui era custode sua zia Zaira) con i suoi vasi di limoni, i genitori e suo fratello Vittorio. La cognata della mamma con i figli Franco e Marisa; il giovane fratello del babbo, inviato sul fronte africano, fu fatto prigioniero e trasferito in America. “Prima della guerra stavamo bene. – dice – Io portavo una pelliccia di coniglio. Non eravamo proprietari, ma avevamo una bella stalla e un meleto molto grande”.

Diversi i rifugi realizzati nei campi. A un certo punto fu scavata una fossa per farne la stalla di cavalli e mucche. Ma i tedeschi, “avvisati”, il primo giorno si presentarono a prendere su tutto.

Villa Spadina, Ferrovia e Palazzo San Giacomo divennero presto oggetto di bombardamenti.

“Ricordo che una volta uscimmo scalzi in camicia da notte e andammo verso un rifugio realizzato sotto un pagliaio. Poi un giorno, invece di colpire palazzo San Giacomo, – racconta Ines – la bomba arrivò nel nostro cortile dove i tedeschi erano venuti a prendere delle mele, con la cavalla che ci avevano rubato la settimana prima. Volarono via le mele, la cavalla era infuriata, e un giovanissimo soldato tedesco prontamente mi coprì col suo corpo per proteggermi”.

A un certo punto in casa si decise di partire. Troppo pericoloso restare. “Ricordo che a noi bambini fecero un sacchetto bianco con panini e partimmo verso il palazzo di ponte dei Berberi. Ma anche lì, una bomba colpi la villa e dovemmo abbandonarla”.

In quel periodo Ines e famiglia sfollarono a Traversara da alcune zie, poi a Prati di Bagnacavallo, al Ponte dei Berberi, a Villanova di Ravenna e, da ultimo, a San Pancrazio.

Nonna e babbo un giorno tornarono a casa per vedere come era messa. Trovarono tute militari insanguinate e tanti santini, ma anche tanti danni. Vetri rotti e buchi di proiettili. Ines invece tornò a casa solo a guerra finita.

Lei ricorda anche i campi disseminati di tombe, scavate per i tanti soldati di ogni nazionalità che in quei mesi, in cui il fronte alleato era posizionato al di qua del Lamone, e quello tedesco oltre il Senio, ebbero qui una prima sepoltura.

“Un giorno un aereo cadde nel meleto – racconta Ines – il pilota ebbe le gambe tranciate. Prima di morire dissanguato, vedendo nonna che era giunta sul posto, le disse ‘Nonna prega!’”.

Poi, qualche ricordo a guerra finita. La scuola a casa Bucci, a fianco di Palazzo San Giacomo, con la maestra Silvana Aiello “che ci diceva: ‘non vi voglio vedere né vivi, né morti, né in cartolina”. Come dire che anche allora i ragazzi erano piuttosto vivaci. “Andavamo a scuola tutti col fascinino per scaldarci. E nessuno allora aveva bisogno di fare la dieta”.

Al parroco di San Giacomo, poi, qualche anticlericale tentò uno scherzo poco simpatico. Le armi da guerra erano molte e qualcuno ne nascose diverse nella cupola della chiesa segnalando anonimamente la cosa alla polizia e incolpando il parroco. “Arrivarono diverse camionette della Celere quel primo venerdì del mese, e don Ezio celebrò messa in un clima di forte tensione”.

L’ultimo ricordo va a una staffetta partigiana oggi defunta.

Liliana de machinì, sorella di Luciano Pezzi, giovane avvenente che un giorno fu fermata da soldati tedeschi che notarono la sporta piena di mele. La lasciarono andare, senza accorgersi delle armi proprio sotto a quelle mele.

Anche il suo gesto contribuì alla Liberazione della nostra città, e del nostro paese.

Giulio Donati