È nato otto anni dopo l’attentato di via Pipitone Federico del 29 luglio 1983 dove, oltre al giudice Rocco Chinnici, persero la vita due uomini della scorta (il maresciallo dei carabinieri Mario Trapassi e l’appuntato Salvatore Bartolotta) e il portiere dello stabile in cui viveva, Stefano Li Sacchi. Suo nonno non l’ha conosciuto e non può ricordare di essere stato tenuto a battesimo da Giovanni Falcone, ma Alessandro Averna Chinnici ha deciso di servire lo Stato con la stessa uniforme dei Carabinieri morti in quella calda mattina del 1983.
L’Italia di Rocco Chinnici, storie di un giudice rivoluzionario e gentile

A distanza di oltre quarant’anni, il padre del pool antimafia rivive nel libro del nipote (oggi capitano dei Carabinieri della Compagnia di Faenza) L’Italia di Rocco Chinnici, storie di un giudice rivoluzionario e gentile, scritto a quattro mani con il giornalista e scrittore Riccardo Tessarini. Poco più di duecento pagine, che racchiudono 33 tra testimonianze e interviste inedite. Un racconto corale che va letto con calma perché, inevitabilmente, interroga e al contempo commuove. Un libro che, nelle parole degli autori, “intende parlare al cuore del lettore”. Ed è qui che centra l’obiettivo: le testimonianze raccolte non raccontano solo il magistrato e le insidie del braccio lungo della mafia, ma l’uomo, capace di anteporre il bene comune alla propria vita. Grazie all’incredibile congruenza tra ideali e vita vissuta, il “giudice gentile” mostra con l’estremo sacrificio che i valori sopravvivono alle persone. Il pool antimafia, nato sull’onda di una lunga scia di sangue, non è stato solo una necessità, ma è l’emblema di come l’unione, alla fine, vince sull’orrore. Rocco Chinnici, dal 1979 capo dell’Ufficio Istruzione del tribunale di Palermo, fu un pioniere. Ideatore del reato di associazione a delinquere di stampo mafioso e anima del lavoro di squadra, rivoluzionò il modo di condurre le indagini, creando strumenti e metodi tutt’ora in uso. Non fece in tempo a vedere i frutti del suo lavoro, culminati nel maxiprocesso di Palermo che si concluse nel 1992 con 360 sentenze di condanna e 19 ergastoli, inflitti ai principali capi di Cosa Nostra, come Salvatore Riina e Bernardo Provenzano. I proventi dei diritti spettanti a Chinnici andranno all’omonima Fondazione che ha sede a Partanna, in provincia di Trapani.
Intervista ad Alessandro Averna Chinnici
Capitano Averna Chinnici, il libro è denso di testimonianze e racconti. Quanto tempo avete impiegato?
Abbiamo lavorato al libro per quasi due anni e mezzo. Non è stato semplice: volevamo dare voce a chi aveva conosciuto mio nonno e alla sua eredità morale. Inizialmente avevamo stilato una lista di una cinquantina di persone da contattare, ma non tutti hanno accettato di parlare. Alcuni ci hanno detto di no, mentre con altri abbiamo dovuto insistere, aspettare i tempi giusti e trovare le parole adatte per convincerli. Ci sono stati anche incontri toccanti. Penso alla dottoressa Messina, che era solo una studentessa quando mio nonno tenne una conferenza nel suo liceo. Oppure a Giovanni Paparcuri, l’ autista miracolosamente sopravvissuto alla strage. E ancora Filomena Bartolotta, figlia dell’appuntato dei carabinieri che morì insieme a mio nonno.
Lei è nato otto anni dopo l’attentato e un anno prima delle stragi di Capaci e via D’Amelio. Un’eredità che determinerà le sue scelte di vita. Ha pagato un prezzo?
Durante l’infanzia non ne ho percepito il peso. Per me era normale vedere mia madre sotto scorta, così come mio padre in alcuni periodi, oppure essere accompagnato all’asilo dalla Digos. Le persone della scorta facevano parte della nostra vita. Tutto è cambiato dopo il liceo, quando ho dovuto scegliere la mia strada. Mentre molti miei compagni si prendevano tempo per decidere il loro futuro, io sapevo di non poterlo fare. La mia via era già segnata: dovevo fare qualcosa di concreto per la legalità.
E così è entrato nell’Accademia militare di Modena.
È stata un’esperienza durissima, soprattutto per chi, come me, veniva da una vita agiata e serena. L’Accademia mi ha formato, messo davanti a prove difficili e reso consapevole del ruolo che avrei dovuto ricoprire. Oggi sento la responsabilità, ma non il peso del mio incarico, questo sì.
Suo nonno fu il primo a capire che per combattere la mafia bisognava lavorare in squadra.
Lo disse chiaramente: «Quando un giudice muore, l’attività di indagine muore con lui». Per questo creò un nucleo di magistrati che lavorava insieme, condividendo informazioni e strategie. Voleva inoltre che le indagini fossero gestite dagli organi di polizia giudiziaria nella loro interezza. Grazie a questo metodo, nonostante omicidi e stragi, i processi sono andati avanti e le condanne sono arrivate. Sapeva di essere nel mirino della mafia. Dopo l’uccisione del prefetto Dalla Chiesa, era certo di essere il successivo.
Gli anni tra il 1979 e il 1983 sono stati i più prolifici, ma anche i più difficili. Nel 1979 diviene capo dell’Ufficio istruzione del Tribunale di Palermo. Da quel momento i progressi nelle indagini andranno di pari passo con un’escalation che lo porterà alla morte. Suo nonno avrebbe potuto trasferirsi a Torino, ma rifiutò. Perché?
Fermarsi avrebbe reso vano tutto ciò che era stato fatto fino a quel momento. La legge Rognoni-La Torre, il sequestro dei beni mafiosi, le indagini patrimoniali: tutto inutile se si fosse arreso.
È vero che mandò i Carabinieri a prendere suo zio e che i fidanzati di sua madre dovevano subire un interrogatorio?
Era un uomo dolce, ma intransigente. La mattina preparava il caffè per tutti, ma poi alzava la serranda e diceva: «Adesso ti devi svegliare». Gli amici e i fidanzati di mia madre venivano esaminati attentamente. Consideri che mio nonno era alto quasi due metri: finire sotto torchio non doveva essere semplice. È capitato che mio zio Giovanni venisse prelevato e portato a casa dai Carabinieri, perché mio nonno aveva ricevuto telefonate minatorie.
Anche i suoi amici hanno subito interrogatori in famiglia?
Ma no (sorride), però i miei genitori erano molto attenti alle nostre frequentazioni, ci tenevano.
Sua madre Caterina non ha mai nascosto sgomento, dolore e rabbia che seguirono l’attentato, poi però ha seguito le orme del padre nella lotta alla criminalità organizzata. Cosa scatta a un certo punto secondo lei?
Tutto nasce dalla sua genuina passione per la magistratura e da un impegno che in quegli anni stava portando avanti. Ha avuto maestri eccezionali: mio nonno, Borsellino e Falcone.
Nel suo libro non si fa mistero dei vent’anni di processi seguiti alla strage di via Pipitone Federico. Ritiene che sia stata fatta giustizia?
Assolutamente. Si sarebbe potuto qualcosa fare di più per completare il quadro, ma recriminare oggi non avrebbe senso.
Suo nonno diceva: «Vado a seminare» quando andava nelle scuole a parlare di mafia, senza giri di parole. Lei oggi va nelle scuole a parlare di legalità.
I giovani di oggi hanno opportunità incredibili. Il problema è che spesso non si avvicinano a certi temi, quindi è importante guidarli. La mafia non è sparita, ha solo cambiato volto e si è diffusa in tutta Europa. Se non se ne parla, il rischio è che si sottovaluti il problema.
Cosa resta da fare?
Bisogna migliorare gli strumenti, snellire le procedure, soprattutto tra i Paesi europei, e utilizzare al meglio le risorse a nostra disposizione. Finché esisterà la mafia, ci sarà sempre qualcosa da fare.
Molto commovente è il suo primo incontro con Rita Dalla Chiesa. Si è reso conto di essere un segnale di speranza?
Sul momento no. L’ho capito col tempo. Rita mi ha sempre trasmesso affetto, la considero una zia. Penso che, in qualche modo, io abbia rappresentato per lei una continuità con la figura di suo padre.
Nel libro ci sono aneddoti riguardo alla vita di suo nonno di cui non era a conoscenza?
Sì, ce ne sono parecchi. Come la storia del cappotto rinforzato di mio nonno, che così rinforzato non era, raccontata dal giornalista Felice Cavallaro, o la testimonianza del maestro Santi Pulvirenti.
Che obiettivo si è dato?
Vorrei che il libro arrivasse ai giovani, che toccasse i loro cuori. Se anche solo un ragazzo, dopo averlo letto, sceglierà la strada della legalità, allora avrò vinto la mia battaglia.
È credente?
Sì, la nascita dell’Universo e ciò che accade non può essere frutto del caso.
Barbara Fichera
(Nella foto: Alessandro Averna Chinnici insieme alla madre Caterina, europarlamentare e magistrato)